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Enrico Morando, esponente del Partito democratico (foto Lapresse)
«Sono sconcertato da un capovolgimento di senso». Spieghi pure, onorevole Morando. «Mi sconcerta il paradosso per cui, nelle analisi di questi giorni sul Qatargate, a finire sotto attacco è la cosiddetta terza via del Pd, la cultura liberalsocialista a cui personalmente appartengo. È davvero spiazzante, considerato che i singoli coinvolti nell’indagine sono al limite riconducibili a quella rispettabilissima area socialdemocratica, a quella sinistra del Pd che la terza via ha sempre osteggiato. Non intendo affatto dire che va messa sotto processo un’altra famiglia, interna al nostro partito, nel quale, oggettivamente, non c’è un solo esponente che risulti indagato. Voglio semplicemente notare però che è incredibile fare il contrario e ribaltare completamente il quadro a danno della componente liberale».
Enrico Morando ha una capacità, incrocia nelle sue osservazioni tre elementi: il congresso dem, il garantismo in affanno nel partito e le distorsioni interpretative degli ultimi giorni. Già parlamentare dell’ala liberal interna al Pd appunto, Morando è il presidente di Libertà eguale ed è tra i sottoscrittori di un documento elaborato in vista del congresso insieme a figure, tra le altre, come Giorgio Gori, Marco Bentivogli, Tommaso Nannicini e Umberto Ranieri, intitolato “Un nuovo inizio”.
Mentre qui pare che si sia giunti addirittura a un capolinea, a una Caporetto del Pd. Non sarebbe più semplice dire, rivendicare che non c’è un solo indagato con la tessera del Pd, nell’indagine sul Qatargate? Un atto di ribellione garantista che rovesci le analisi più critiche, come quella firmata ieri da Ezio Mauro su Repubblica?
Direi che la rivendicazione garantista di cui lei parla è un po’ sopravanzata dalla dimensione che la vicenda assume non certo per il Partito democratico italiano ma per l’intero Europarlamento. Premessa: il ritrovamento di borsate di soldi nella disponibilità di componenti dell’Assemblea di Strasburgo o di loro collaboratori costringe a valutare la gravità del rischio a cui siamo esposti. Solo che non condiviso la prospettiva desolante e un po’ catastrofista, forse, che si dà a proposito appunto del Parlamento Ue. A me sembra chiaro che qui i presunti corruttori, gli autocrati stranieri cercano, Qatar in testa, di comprare un pronunciamento favorevole. E noi stessi ora ci siamo resi conto di quanto siamo influenti e credibili. Non solo e non tanto per le attività regolative svolte dall’Europarlamento, ma per i giudizi di valore che può esprimere, appunto, in relazione a Stati autocratici estranei all’Unione. Vuol dire che Strasburgo è diventata più autorevole, e i suoi giudizi più temuti, di quanto abbiamo pensato finora. Mi pare che una chiave del genere sia rimasta piuttosto esclusa dai commenti di questi giorni. Dopodiché, se questo sorprende, la sostituzione di cui parlavo all’inizio, vale dire la cosiddetta terza via, l’idea liberale del Pd, messa nel mirino nonostante i presunti protagonisti dei casi su cui indagano i giudici belgi provengano da una componente esattamente opposta, è, come detto, incomprensibile. Sconcertante.
Il nodo è l’identità: può esserci nel centrosinistra un partito dall’identità così plurale, vista la concorrenza di Terzo polo al centro e 5S a sinistra?
Rovescio la domanda: abbiamo perso, il 25 settembre, certo. Ma davvero si crede che in futuro un centrosinistra capace di portar via il primato alla destra-centro di Meloni si possa costruire attorno al Terzo polo o al Movimento 5 Stelle? A me sembra assolutamente che non sia così. Che esiste competizione con la destra- centro a patto che vi sia un partito a vocazione maggioritaria, il nostro, capace di rappresentare una vera alternativa.
Ancora a proposito di identità: non sarebbe il caso di distinguersi, sulla giustizia, dal M5S, come lei, Ceccanti e pochi altri avete provato a fare con l’adesione a tre dei cinque referendum, nella scorsa primavera?
Caspita, assolutamente sì. Certo che dobbiamo essere riconoscibili, distinti da una forza, il Movimento 5 Stelle, apertamente giustizialista. Dobbiamo farlo in nome dell’articolo 111 della Costituzione, secondo cui davanti a un giudice terzo e imparziale devono giustapporsi due parti, una pubblica, vale a dire l’accusa, e naturalmente la difesa. Serve la separazione delle carriere, come ricordiamo persino nel capitolo sulla giustizia richiamato sul portale di Libertà eguale. Separare le carriere dei magistrati realizza un principio di civiltà e di equilibrio tra i poteri che nessuno può confondere con le ipotesi di chi aspirava, almeno fino a qualche anno fa, a sottomettere la magistratura alla politica. E noi, che dobbiamo saper interpretare davvero i valori della democrazia liberale, anche nel campo della giustizia, possiamo essere, in questa sfida, credibili come nessun altro.