«Di fronte a crisi gravi bisogna organizzare un team che le affronti, ma al contempo costruirne un altro per studiare le strategie a medio-lungo termine. È ciò che deve fare l'Europa , ma anche l'Italia , se vorrà restare un attore rilevante nello scacchiere globale. L'autonomia energetica e la transizione ecologica è uno degli obiettivi su cui puntare».

Ne è convinto il professore Enrico Giovannini , già ministro nei governi Letta e Draghi, ordinario di Statistica economica e Sviluppo sostenibile all'Università di Roma “ Tor Vergata ”. È stato ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile nel governo Draghi e del Lavoro nel governo Letta, nonché presidente dell'Istat. È co-fondatore e direttore scientifico dell'Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile ( ASviS ), una rete di oltre 300 realtà della società civile, nata per attuare in Italia l'Agenda 2030 dell'Onu.

Professore, le Borse continuano a soffrire dopo l'annuncio di Trump sull'aumento dei dazi. Il rischio di recessione e lo spettro di una crisi come quella degli anni '30 sono concreti?

Purtroppo sì. È opinione diffusa che la decisione degli Stati Uniti possa condurre una recessione globale. Trump sta cercando risorse per sostenere l’economia americana e mantenere le sue promesse elettorali, ma deve fare i conti con un debito pubblico enorme e un forte indebitamento estero. I mercati attendono che la situazione si stabilizzi, con l'auspicio che arriveranno secondo “ragionevoli” tra Stati Uniti, Cina e Unione Europea. Ma l'incertezza è molto alta, anche perché l'amministrazione americana ha deciso di far scoppiare una guerra commerciale affidandosi a una formula sbagliata. In tali condizioni, credo che nessuna grande casa d'investimento consiglierebbe oggi ai propri clienti europei di investire negli Stati Uniti.

Come si spiega una decisione così controversa da parte degli Stati Uniti?

È difficile capire la strategia, non solo di Trump ma dell'intera amministrazione. Sembrano convinti di poter assorbire i danni di breve periodo, anche una recessione, in vista di benefici a medio-lungo termine basati sulla rilocalizzazione negli Stati Uniti di impianti industriali. Ovviamente è tutto da dimostrare, ma sembra questa la logica che sostiene queste decisioni.

E l'Unione Europea come dovrebbe reagire?

Non deve farsi prendere dal panico. Le istituzioni europee sono giustamente preoccupate di cercare un equilibrio tra diverse azioni, ricordando che i dazi non sono l'unico campo su cui si gioca la partita. Bisognerebbe accelerare l'integrazione dei mercati finanziari, promuovere l'euro digitale, che può rappresentare la risposta europea alle criptovalute oa mBridge, il nuovo sistema cinese, che potrebbe mettere a rischio Swift.

Quali sono i rischi per il Vecchio Continente?

Se, accanto a una Cina da sempre capace di pianificare nel medio-lungo periodo, anche gli Stati Uniti hanno deciso di adottare una strategia di questo tipo, l’Europa deve fare altrettanto. Altrimenti rischiamo di essere il classico vaso di coccio tra vasi di ferro. Esiste però una grande opportunità: come ha scritto Enrico Letta nel suo rapporto, in un contesto in cui ogni anno centinaia di miliardi di risparmi europei vanno negli Stati Uniti, l'Europa potrebbe creare un'Unione dei risparmi e degli investimenti, come recentemente proposto dalla Commissione Europea. In un periodo così incerto, questa potrebbe diventare una leva formidabile.

L'Europa, quindi, dovrebbe essere protagonista del proprio futuro?

Invece di discutere quotidianamente su come reagire ai dazi, che pure sono un problema urgente, dovrebbe trovare il tempo per occuparsi delle questioni davvero importanti, affidando il compito a persone diverse da quelle concentrate solo sulle emergenze. E questo vale anche, e soprattutto, per l'Italia. In un mio articolo su L'Espresso del marzo 2020, mentre si chiudevano le zone rosse, scrivevo che tutti i manuali di gestione delle crisi insegnano una cosa fondamentale: bisogna organizzare un team per la gestione immediata della crisi, ma anche un altro per pianificare la ripresa, cioè sfruttare la crisi per “rimbalzare avanti” in base al principio della “resilienza trasformativa” che avevamo sviluppato tra il 2016 e il 2019 dal Centro Comune di Ricerca della Commissione, sotto la mia supervisione, e che poi ha portato la parola “resilienza” al centro delle politiche europee. La risposta alla mia proposta per l'Italia è stata il Comitato Colao del governo Conte II, che lavorò per alcuni mesi delineando le azioni future, molte delle quali sono poi entrate nel Pnrr, per rendere il Paese più forte e strutturalmente resiliente.

Quale dovrebbe essere, oggi, la road map europea per affrontare lo shock trumpiano?

La prima domanda è: tra dieci anni, vogliamo che l'Europa sia ancora influente nelle istituzioni multilaterali e che esse siano rafforzate? È una questione molto concreta, che richiede decisioni nei prossimi mesi. Ad esempio, il seggio francese al Consiglio di Sicurezza dell'Onu dovrebbe trasformarsi nel seggio dell'Unione Europea? Nella conferenza Onu di luglio sul finanziamento ai Paesi in via di sviluppo l'Unione Europea condivide l'idea che la governance delle grandi organizzazioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) sia più inclusiva nei confronti dei paesi emergenti e in via di sviluppo, o si schiererà con l'amministrazione Trump, che rifiuterà questa novità?

Serve, dunque, un nuovo progetto europeo?

Noi, come la Cina, non siamo autonomi sul piano energetico. Ma vogliamo esserlo il prima possibile, magari tra dieci anni, come sta cercando di fare Pechino? Per arrivare bisogna investire in modo massiccio nelle rinnovabili, perché il nucleare richiede tempi molto più lunghi. Altrimenti continueremo a comprare Gnl dagli Stati Uniti, rimanendo esposti all'instabilità dei mercati. C'è poi il tema della difesa. E poi dovremmo pensare a un nuovo “Next Generation Africa”: un grande piano per rafforzare la nostra autonomia strategica rispetto a un continente ricco di materie prime, investendo con decisione e mezzi adeguati, anche per motivi geopolitici, per evitare che sia solo la Cina ad approfittarne, visto il disimpegno statunitense.

Tuttavia sia l'amministrazione Trump sia la premier Meloni sembrano andare in una direzione opposta: contro le rinnovabili e contro il Green Deal.

Come ASviS, insieme al centro di ricerca internazionale Oxford Economics, non proprio un gruppo di sovversivi, abbiamo dimostrato lo scorso anno che la transizione ecologica conviene anche dal punto di vista economico. Questo è confermato anche a livello di singole imprese dai dati Istat, Unioncamere, Sace, The European House Ambrosetti: le imprese italiane che hanno attuato contemporaneamente la transizione ecologica e quella digitale hanno registrato maggiore produttività, competitività, occupazione e profitti. È un'evidenza concreta, non teorica. E i dati dimostrano che rinviare la transizione sarebbe un errore. Per altro, JP Morgan, nei giorni scorsi, ha annunciato che intende riorganizzare il proprio business sulla base di uno scenario in cui le temperature aumenteranno di 3 gradi rispetto ai livelli preindustriali.

Quindi sono già avanti.

No, è un disastro. Sono “avanti” nel senso che danno ormai per scontato uno scenario catastrofico, anche a causa della politica Trumpiana. Quando nel 2019 l'Europa dichiarò l'intenzione di diventare il primo continente climaticamente neutrale entro il 2050, la Cina rispose che ci sarebbe arrivata entro il 2060. Ora, secondo alcune stime, potrebbe riuscirci già nel 2045. Ma non per amore del pianeta: è una questione economica e puntano all'autonomia energetica. E l'Europa, che come la Cina non ce l'ha, deve accelerare su questa strada, non certo rallentare.

A proposito di Europa: il “suo” presidente del Consiglio, Mario Draghi, mesi fa ha invitato l'Unione Europea a muoversi.

Nel suo Rapporto Draghi afferma chiaramente che la competitività è uno strumento per generare risorse da investire nella transizione green, digitale e nel welfare europeo. I dati dimostrano che tra sostenibilità e competitività non esiste alcun conflitto e Draghi lo ribadisce chiaramente nel suo Rapporto.

In un recente incontro lei ha citato “l'economista” John Belushi in Animal House: “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”. Ci siamo?

I duri sono già entrati in campo, e si vede in molti settori.

Cosa ci aspetta adesso?

Le rispondo con una preghiera molto nota: «Dio, aiutami a cambiare le cose che posso cambiare, ad accettare quelle che non posso cambiare, e soprattutto a distinguere le une dalle altre». Se continuiamo, come Paese, a discutere solo su come reagire nell'immediato, con calma o senza, senza attrezzarci per affrontare il futuro, allora sarà il futuro a occuparsi di noi. Proprio come è accaduto con la pandemia.