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Crisi di sistema. Ha ragione il direttore del Dubbio a mettere in fila “tre istantanee di un Paese ripiegato su se stesso” - Ilva, Venezia, Giustizia - per dare il senso di una crisi profonda che va ben al di là della contingenza. Essa affonda le radici in un passato non troppo lontano. Prenderne coscienza è il primo passo per cercare di rimediare ai guasti compiuti e venirne a capo.
Definire una crisi “di sistema” significa, innanzitutto, aver chiaro che l’approdo nel terzo millennio non è stato dei più felici. Non lo è stato per le vicende finanziarie che, dal 2008 in poi, hanno messo in ginocchio le economie occidentali e impoverito intere nazioni. Non lo è stato per le ricadute di una globalizzazione talmente pervasiva ed omologante da scardinare le identità dei popoli. Non lo è stato, soprattutto, per quel senso di rassegnazione che ha sottratto energia ad ogni azione che fosse minimamente razionale, ancorata ad una visione men che decente del bene comune.
Da noi, poi, ad aggravare la situazione, si è aggiunta una buona dose di pressapochismo, di illusoria ricerca del “cambiamento per il cambiamento”, di un affannoso “nuovismo” in cui rifugiarsi dalle delusioni, amarezze, incazzature per i ripetuti fallimenti di un certo ceto politico. Ora, però, che i mali sono evidenti e i guasti di questa lunga e tormentata stagione vengono al pettine, si impongono analisi e riflessioni che, lungi dall’apparire assolutorie, indichino una rotta, una direzione, una visione, una idea di futuro.
Prendiamo, ad esempio, i luoghi della decisione. Chi decide cosa? I casi dell’Ilva e del Mose mostrano i segni di un vuoto di decisione che fa rabbrividire. Nell’un caso e nell’altro, si affida alla magistratura un compito che non le appartiene: quello di sostituirsi al decisore politico. Potremmo discutere a lungo sulle cause che hanno generato questa stortura sistemica. Fatto sta che se non si riparte da qui, il nostro sistema democratico continuerà ad essere incerto e vacillante.
Per esercitare un potere decisionale in capo alla politica, però, la riforma della Giustizia ( dalla separazione delle carriere alla riduzione dei tempi processuali, alla riforma del Csm etc.) è necessaria ma non sufficiente. Il decisore politico, per essere in grado di assumere su di sé ogni responsabilità, ha bisogno, da un lato, di legittimazione ( le elezioni servono a questo scopo) e, dall’altro lato, di essere autorevole.
Ma l’autorevolezza non è merce che si compra al mercato: si conquista sul campo. Da troppo tempo assistiamo, invece, ad una politica che manca di autorevolezza e a politici poco credibili. In questo quadro, paradossalmente, le Autorità si sono moltiplicate a dismisura, costituendo agenzie parallele, cui vengono demandati controlli di ogni tipo, a volte in una sconcertante sovrapposizione di ruoli e funzioni. Il potere ne risulta frammentato. Che cosa volete che si possa ricavare da una siffatta moltiplicazione dei centri decisionali, peraltro privi di legittimazione diretta? Il caos. La crisi di sistema, appunto. Una società complessa ha bisogno di strutturarsi anche attraverso nuove forme organizzative.
Ma per quanto possano essere articolate le varie organizzazioni che sovraintendono alla vita di ognuno di noi, esse debbono in ogni caso migliorare la nostra condizione, non complicarla. E’ questo anche il caso della Pubblica amministrazione. Un altro osso duro con cui confrontarsi. Da quando, alla fine degli anni Novanta, con le riforme Bassanini, abbiamo iniziato a introdurre i principi teorici del New Public Management e si è sviluppato un nuovo paradigma di gestione. Il tutto accompagnato da un processo di decentramento amministrativo e funzionale spesso assai contraddittorio e confuso. Da tale processo, secondo alcuni studiosi, è nata una nuova burocrazia il cui tasso di autoreferenzialità si è, purtroppo, accentuato nel tempo.
Con il risultato di soffocare lo spazio dell’indirizzo politico, comprimedolo e offuscandolo, oppure, all’opposto, di fornire una dirigenza nelle sue sfere gerarchiche asservita al potere politico da cui promanano incarichi e nomine. In entrambi i casi, la burocrazia ha finito con il perdere credibilità e imparzialità agli occhi dell’opinione pubblica. A sua discolpa, va detto che il contesto normativo in cui dirigenti e funzionari sono chiamati ad operare non è un contesto favorevole, appesantito com’è da un numero esorbitante di leggi e di norme ( oltre 110 mila), spesso confuse e scritte male.
Nel marasma legislativo e con gli occhi delle procure puntati addosso, i burocrati sguazzano come pesci, declinando ogni assunzione di responsabilità. E’ nella fuga dalle responsabilità che si annida la stasi, il blocco di ogni opera pubblica, finanche, a volte, la rinuncia a firmare la più banale autorizzazione, una semplice certificazione o una determina amministrativa.
Così, nella deresponsabilizzazione e nel venir meno dei decisori, siano essi politici o amministrativi, la crisi di sistema finisce con lo specchiarsi. Una condizione, ormai, che non possiamo più permetterci.