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Nella psicopatologia della politica italiana siamo ormai alla schizofrenia conclamata. Mentre in Emilia e Calabria, e in Umbria e in tutte le Regioni in cui si è votato negli ultimi vent’anni, va di scena il bipolarismo, nella politica nazionale si accelera la spinta verso la direzione esattamente opposta.
Per la verità è una tentazione che non è mai stata abbandonata, persino negli anni del mattarellum, che comunque ci ha dato i governi più stabili della storia repubblicana. Si ricordano dissertazioni dottissime sul fatto che l’Italia non fosse fatta per la competizione, che il bipolarismo muscolare aveva avvelenato il placido spirito nazionale, che finalmente l’avvento del tripolarismo ( Centro- destra Pd e M5s) avesse spazzato via le smanie di protagonismo di qualche accademico innamorato delle geometrie istituzionali e soprattutto illuso che l’Italia potesse essere, un giorno, simile a qualsiasi grande democrazia occidentale.
In fondo perché la stabilità dovrebbe essere un valore? Perché una maggioranza dovrebbe pretendere di governare indisturbata per quattro ( mai accaduto) o cinque ( mai accaduto) anni?
Le elezioni di ieri confermano questa patologia. Chiuse le urne sullo scacchiere del presidenzialismo regionale, e tirato un sospiro di sollievo, finalmente ci si può applicare alla madre di tutte le battaglie: la riscossa del proporzionale a livello nazionale.
E tutto sembra indicare che la strada sia ancora più in discesa. Il fanytasma Perché il proporzionale non serve solo a contenere la vittoria dell’avversario, ma anche a smembrarne le alleanze, a destrutturarne le strategie di convergenza politica in alternativa alla maggioranza che c’è. Anzi, con il proporzionale non c’è peggior nemico che colui che mi sta accanto; il partito che pesca i voti al confine, se non dentro, il mio stesso elettorato.
Altro che bipolarismo; il proporzionale è un sistema di competizione feroce; a cominciare dal vicino di casa. Poco importa se quella competizione somiglia un po’ al wrestling e, dopo qualche ora dalla chiusura delle urne, comincia la lenta marcia di avvicinamento per unire il diavolo e l’acqua santa, ma sempre con rassegnata contrizione: “Purtroppo le elezioni non hanno dato un risultato chiaro”. Ora, a parte il fatto che forse un giorno magari si potrebbe anche chiedere ai cittadini se veramente il bipolarismo regionale li faccia sentire così soffocati dalle costrizioni e nostalgici della libertà proporzionalistica, in cui la giostra delle alleanze assicura tutte le allegre combinazioni dell’arcobaleno… a parte ciò, forse ci si dovrebbe domandare se, veramente, la stabilizzazione promessa dall’Emilia sia effettivamente così rassicurante.
Perché un fantasma si aggira per le Camere: quello di Luigi Di Maio, il perdente in un partito di perdenti. E siccome la politica un po’ agli interessi ci sta attenta… la domanda fondamentale è: ma Di Maio accetterà di fare la comparsa in un movimento che ha voluto la sua scomparsa? O non è forse il candidato migliore per assicurare una prospettiva a quelle decine di parlamentari M5S che altrimenti non tornerebbero mai più in Parlamento? E siccome nella politica italiana, parafrasando Moretti, si vien visti di più quando si rompe piuttosto che quando si governa… fossimo negli altri non saremmo così certi che l’Emilia abbia risolto un problema, senza aprirne subito un altro.