Nel caso della Open Arms, che poi ha portato a processo il vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, non sono mancati condizionamenti emotivi, come rileva l’avvocato Vincenzo Maiello, professore ordinario di Diritto penale nell’Università di Napoli Federico II. Condizionamenti che avrebbero dovuto porre al centro della vicenda giudiziaria il comandante della nave, «considerato garante della vita e dell’incolumità personale dei passeggeri, oltre che della loro libertà».

Professor Maiello, nella vicenda a carico del ministro Matteo Salvini sono andati in scena gli orrori del fenomeno dell’immigrazione clandestina. Cosa ne pensa?

Quanto vissuto a bordo dell’Open Arms, tra il 14 e il 20 agosto 2019, è qualcosa di atroce che annichilisce le coscienze e ci ricorda crudeltà e barbarie dell’immigrazione clandestina. La compressione di libertà e dignità dei 147 migranti a bordo è stata spaventosa e umiliante, ai limiti dell’asfissia. Una situazione di così grave e profonda lesione delle prerogative di vita di tanti esseri umani imponeva l’accertamento di eventuali responsabilità. Il punto, però, è proprio questo: in una democrazia costituzionale, ispirata alle regole dello Stato di diritto, questa cruciale funzione va esercitata nella rigorosa attuazione dei principi di legalità-determinatezza della legge penale e di personalità del giudizio di colpevolezza.

Ritiene che questi principi non siano stati osservati?

La vicenda dell’Open Arms è intervenuta in un momento nel quale uno dei punti programmatici dell’allora maggioranza di governo era la lotta senza quartiere all’immigrazione clandestina. Temo che questo contesto abbia potuto offuscare i termini dell’azione giudiziaria. È possibile che abbia preso il sopravvento la tentazione di mettere in diretta connessione l’ostracismo governativo verso gli sbarchi di migranti e il blocco della navigazione dell’Open Arms, che tanta indicibile sofferenza ha arrecato ai suoi passeggeri. Assai verosimile è che in questo clima sia maturata l’imputazione secondo cui il ministro Salvini, omettendo di accogliere le richieste di place of safety, inoltrate al suo Ufficio di Gabinetto dall’Italian Maritime Rescue Coordination Centre, avrebbe dovuto essere considerato l’effettivo, e unico, “autore” della libertà sequestrata a quei poveri sventurati. Si tratta di un’impostazione che finisce per aggirare i principi prima ricordati di legalità e personalità della responsabilità penale i quali, mi piace sottolineare, non rappresentano solo garanzie e diritti fondamentali dell’accusato, bensì anche presidii di un esercizio indipendente della giurisdizione.

C’è stato, secondo lei, un trasporto emotivo, che ha condizionato i fatti che hanno interessato l’Open Arms e i risvolti giudiziari che ne sono derivati?

Ritengo che una valutazione meno emotivamente condizionata della vicenda avrebbe dovuto orientare verso un’altra direzione, quella di addebitare l’evento al comandante della nave. Sia per il diritto interno, sia per il diritto internazionale, lo stesso richiamato dal capo d’imputazione al ministro Salvini e invocato a fondamento della presenza delle Ong, egli è considerato garante della vita e dell’incolumità personale dei passeggeri, oltre che della loro libertà. Nella situazione di crisi drammatica per le condizioni di vita dei passeggeri, che si era determinata in seguito alla mancata autorizzazione del ministro al cosiddetto porto sicuro, il comandante avrebbe avuto l’obbligo di raggiungere il porto più vicino. Avrebbe, realizzato, certo, una condotta di ingresso abusivo nello Stato, giustificata, però, dall’adempimento del dovere di proteggere l’incolumità dei passeggeri. In questa veste di soggetto tenuto all’osservanza delle fonti internazionali a tutela dei diritti umani dei passeggeri, sarebbe stato dovere del comandante disattendere norme e fatti giuridici del diritto interno confliggenti con quelle discipline, a fortiori se di rango secondario, come l’atto amministrativo che il ministro Salvini non avrebbe rilasciato, e ancor più ove espressi in forma omissiva. Insomma, la limitazione di libertà sofferta dai migranti a bordo dell’Open Arms appare conseguenza, diretta e immediata, della decisione del comandante della nave di non raggiungere il porto di Lampedusa, non già dell’omesso rilascio da parte del ministro dell’autorizzazione al place of safety. Curiosamente, il comandante della nave non figura neppure tra le vittime del sequestro: è una sorta di apolide nel processo. Una “non-persona” nell’ambito di una vicenda nella quale non si vede come possa esserci posto per chi non è né carnefice, né vittima.

Secondo la sua ricostruzione, il ministro Salvini non avrebbe dovuto essere imputato?

Avrebbe potuto esserlo, ma nella ben diversa veste di concorrente nel reato del comandante. In particolare, gli si sarebbe potuto ascrivere una forma di partecipazione criminosa di natura psichica, che richiede presupposti e requisiti di prova non agevole. Difatti, dopo essere stata per molti versi banalizzata nell’esperienza giurisprudenziale, che, in tante occasioni, ne ha sancito la configurabilità senza richiedere la sua incidenza sulla decisione dell’autore del reato, il concorso morale ha trovato una perspicua valorizzazione nel più recente diritto della Corte di Cassazione. Penso alle illuminanti pagine della sentenza che ha definito il processo alla “Trattativa Stato-mafia”, dove i giudici di legittimità hanno ancorato la punibilità del concorso psichico all’accertamento, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua reale rilevanza causale. Ma ecco il punto di domanda: sarebbe sostenibile che il comandante della nave abbia deciso di non raggiungere un place of safety per timore di incorrere nella violazione del diritto interno?

Possiamo definire il processo a Salvini un “processo politico”?

Il processo a carico di un ministro per reati funzionali è inesorabilmente connotato di elementi politici. Del resto, nel disegno del Costituente, i reati ministeriali appartenevano alla cosiddetta giustizia politica del Parlamento e, in ultima analisi, della Corte Costituzionale in composizione allargata. Penso, allora, che solo l’esercizio indipendente della giurisdizione, addestrato ai valori del garantismo costituzionale, possa scongiurare che quei fattori di precomprensione soggettiva prendano il sopravvento sulla struttura del giudizio, che deve essere conforme alla legalità e al diritto. Sullo sfondo vi è, comunque, la grande questione delle democrazie costituzionali, ove la supremazia dei diritti, riducendo gli spazi della discrezionalità politica, nei fatti rischia di porre quest’ultima sotto controllo giudiziario.

Per questo, oltre a meccanismi selettivi di regolazione del rapporto tra poteri, occorre un costume culturale del giudice improntato ad una effettiva terzietà.