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«Eccome si potrebbe mai negare che oggi l’Italia è una Repubblica giudiziaria? Che in Italia i magistrati hanno il potere? E che per ribaltare la situazione ci vorrebbe una classe politica autorevole, capace, tra l’altro, di non compromettersi con storie di ordinaria corruzione, che una classe politica così non si vede e che siamo quindi in un vicolo cieco?». Il tono di Biagio de Giovanni sa essere lucidamente analitico ma anche, se necessario, inevitabilmente esasperato. Il filosofo ed ex europarlamentare del Pci vede con chiarezza la gravità della situazione e condivide in gran parte il discorso fatto due giorni fa da Luciano Violante, che in una lectio magistralis alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa ha detto «stiamo entrando in una società giudiziaria». L’ex presidente della Camera individua un punto di deragliamento: la legge elettorale del 2005, il porcellum, che ha sterilizzato i rapporti tra eletti ed elettori, con i primi «chiusi nella cerchia del capo anziché aperti alla relazione con i cittadini». Da qui a un sistema in cui «il codice penale è la nuova Magna Charta dell’etica pubblica» il passo è stato brevissimo.
È così, professor de Giovanni? È il sistema di voto con le liste bloccate ad aver aperto la strada alla società giudiziaria?
Io farei partire le cose da un momento decisamente anteriore: le inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta. In quel passaggio si è assistito a un fatto che non ha riscontri nelle altre democrazie occidentali: l’annientamento di un intero sistema politico. È lì che i rapporti tra politica e magistratura si spostano e da quel momento la situazione non è stata più ribaltata. Il nostro sistema è stato distrutto da Mani pulite e non è più rinato.
Da Tangentopoli ad oggi non c’è soluzione di continuità?
Non c’è nel senso che l’equilibrio, appunto, non è stato più ripristinato. Poi non c’è dubbio che alle vicende dei primi anni Novanta si aggiungano altri elementi. Ed è verissimo che tutto quanto può accentuare il distacco tra eletto ed elettore favorisce il diffondersi di una critica radicale alla politica e il dilagare dell’antipolitica. C’è un attacco violento che di fatto punta alla fine della democrazia rappresentativa.
In questo c’è una deriva autoritaria?
Intanto penso si possa dire che qui non si tratta di aggiustare un sistema elettorale: la propaganda antipolitica spinge per l’abbandono della democrazia rappresentativa in favore della cosiddetta democrazia diretta, che si realizzerebbe attraverso la rete.
Com’è possibile che vinca un’opzione del genere?
Non possiamo sottovalutare un altro fattore che genera sfiducia nella rappresentanza politica classica: lo spostamento delle decisioni. Se la società non coincide più con lo Stato nazionale ma oltrepassa i confini, acquisisce una dimensione indeterminata se non globale, e se gran parte delle decisioni sono prese al di là dei confini nazionali, è chiaro che le società si sentono meno rappresentate politicamen- te. Cosa può decidere, ormai, un Parlamento nazionale? Al massimo può enfatizzare un aspetto del governo anziché un altro, ma le scelte di fondo vengono prese altrove. E questo ovviamente crea un terreno favorevolissimo per chi sostiene che la democrazia rappresentativa non serva più a nulla, non sia in grado di rappresentare gli elettori e che perciò bisogna aprire alla democrazia diretta.
La purezza opposta dai cinquestelle al resto della politica immondo e corrotto costituisce una forma di fascismo?
I fenomeni non tornano mai uguali e io non allargherei troppo la consistenza storica di categorie come il fascismo. Certo, la critica violenta alla democrazia rappresentativa finisce per rivolgersi in concreto al Parlamento, e questa modalità è stata caratteristica di determinati movimenti di destra del Novecento. Intendiamoci: nessuno pensa che in Italia stia per arrivare il fascismo, e poi c’è la cornice dell’Europa che costituisce comunque una garanzia.
Siamo al sicuro, allora.
Ma siamo anche in una situazione in cui la critica al Parlamento e al parlamentarismo ci mette un attimo a generare una dinamica pubblica confusa in cui emotività e parole d’ordine prevalgono sulla competenza, sulle soluzioni equilibrate. E non è che tra questo e le emozioni di massa di cui parlava Gustave Le Bon più di un secolo fa ci sia tanta differenza.
Il grado di preparazione medio dei parlamentari non fa certo da argine a questa deriva.
E qui ci risiamo con la distruzione del sistema avvenuta a inizio anni Novanta e a cui non si è ancora posto rimedio.
In questa situazione c’è anche un cedimento rassegnato all’invadenza della magistratura? Il Pd per esempio paga un eccesso di vicinanza ai giudici praticato dai suoi “precursori”?
Non c’è alcun dubbio che tutte le forze politiche siano in ginocchio davanti alla magistratura, chi sostenendola e chi subendola. Sarebbe urgente una vera riforma di sistema: separare le carriere, fermare l’osceno viavai tra la toga e i partiti, superare l’obbligatorietà dell’azione penale. Se non si fa questo non se ne esce: ora la magistratura ha il potere in Italia. L’Italia è una Repubblica giudiziaria. Mi sembra di non essere solo, in quest’analisi: perfino l’equilibratissimo Sabino Cassese, nel suo ultimo lavoro, scrive che lo squilibrio tra politica e magistratura è diventato un fatto patologico. Ma poiché ci vorrebbe una classe politica autorevole per ribaltare tutto questo, si ha la netta impressione di essere in un vicolo cieco.