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«Per mancanza di oblio si muore, ma il diritto a essere dimenticati non è assoluto. Va bilanciato con il diritto a essere informati e con la libertà di espressione». Luca Bolognini è l’avvocato esperto di nuovi media che abbiamo scelto per guidarci nell’intricato, ma sempre più attuale, mondo digitale. Ha fondato con Paolo Balboni lo studio ICT Legal Consulting, presiede l’Istituto Italiano per la Privacy e la Valorizzazione dei Dati e ha scritto diversi libri tra cui il volume Codice della Disciplina Privacy e i pamphlet Generazione selfie e Follia artificiale.
Con lui commentiamo il parere della Corte di Giustizia Ue secondo cui il motore di ricerca Google non è obbligato a rimuovere fuori dall’Europa contenuti lesivi o superati. Il contenzioso nasce con l’autorità privacy francese ma riguarda preoccupazioni e vissuto di ognuno di noi. Ogni giorno di più siamo subissati dai dati, condizionati dagli algoritmi, in balia di un destino digitale sempre più simile a una gabbia.
Partiamo dalla Corte di Giustizia Ue. Ci aiuta a capire il valore del pronunciamento?
Non abbiamo ancora potuto leggere le motivazioni e non resta che basarsi sul comunicato stampa ufficiale, che risulta abbastanza contraddittorio e interpretabile. Da un lato si dice che la normativa europea non impone in generale a Google di deindicizzare contenuti anche nelle versioni del motore di ricerca collocate fuori dalla Ue. Dall’altro, nelle conclusioni del comunicato, si fa riferimento alla possibilità per le autorità Ue di emanare provvedimenti mirati che ottengano comunque questo obiettivo. È come se la Corte dicesse che, in un secondo tempo, Google dovrà rispettare il diritto all’oblio anche fuori dall’Europa, in casi particolari e motivati: anche se non c’è un obbligo di legge, la singola autorità potrà imporre che ciò accada con provvedimenti speciali. Se questo fosse il senso della sentenza, allora non mi parrebbe granché favorevole al motore di ricerca.
Eppure oggi l’oblio è diventato un diritto sempre più importante...
Vorrei prima di tutto sottolineare che di violazione della privacy si può morire. Determinate informazioni, se veicolate on line, non solo sono lesive di dignità e libertà della persona, ma sono talmente nocive da poter condurre alla sua fine. Lo stesso cyberbullismo, di cui oggi spesso parliamo, si alimenta con diffusioni illecite e dannose di dati personali. Ma bisogna anche ricordare che il diritto all’oblio deve essere bilanciato con altri diritti come quello ad essere informati e la libertà di espressione, che sono colonne portanti del nostro sistema di garanzie costituzionali. La privacy e il diritto all’oblio non sono quindi assoluti, e in alcuni casi deve prevalere la divulgazione di dati che sono di interesse pubblico.
Sono tempi contraddittori: più appariamo, più speriamo che il diritto preservi la possibilità di “scomparire”.
Se ci pensa, nel passato valeva la regola opposta. La damnatio memoriae era una pesante punizione con cui si colpivano le persone per reati gravi. C’è l’effige di un Doge veneziano, Faliero, in cui al posto del volto è stato posto un drappo nero. Non meritava, per le sue azioni, di essere ricordato nella storia della Serenissima. Oggi vogliamo che certe informazioni personali non vengano divulgate, anzi vengano dimenticate nell’oblio: i valori si sono invertiti.
Uno dei principali problemi è che le informazioni spesso sono fasulle. Entriamo così nel mondo delle fakenews. Che cosa pensa a proposito del deepfake con Renzi che insulta Conte, Zingaretti e Mattarella trasmesso da Striscia la notizia?
Si tratta di un fenomeno allarmante e difficilmente contrastabile. Non stiamo più parlando di applicare il diritto all’oblio o la privacy a dati reali, oggettivi, che magari sono obsoleti o inesatti o riservati. No, nel caso di fakenews o deepfake stiamo parlando di qualcosa di molto più insidioso: sono informazioni false che però vengono recepite come vere. Il deepfake è una tecnica per la sintesi dell'immagine e della voce umane, basata sull'intelligenza artificiale. Nel caso del filmato artefatto di Renzi è abbastanza chiaro che si tratti di un artifizio, anche se molti, probabilmente con meno strumenti, crederanno quelle immagini vere. Ma andrà sempre peggio. Le tecniche di intelligenza artificiale ormai sono in grado di far modificare in maniera sempre più sofisticata la realtà e sarà ogni giorno più difficile, anche per gli esperti e i periti, capire se si avrà a che fare con immagini reali o false. Già oggi, in aggiunta, è tecnicamente fattibile iniettare immagini o informazioni compromettenti nei telefonini di persone prese di mira, per creare finte prove, senza che sia possibile smascherare il meccanismo. È la vecchia bustina di droga messa nella tasca di qualcuno che si voleva fregare. Ma con il deepfake il “gioco pericoloso” diventa perfino pubblico.
Il quadro tracciato è molto preoccupante: come ne usciamo?
Partiamo dal presupposto che non sia per nulla facile uscirne. Io penso che, paradossalmente, dovremmo seguire la strada di “auto- esporci”. Non basta e non serve nasconderci. Al contrario anche le persone comuni devono comportarsi come se fossero dei vip e alimentare, presidiare e orientare la propria immagine pubblica digitale. Ognuno deve diventare responsabile di tenere aggiornato il proprio profilo, facendo in modo di eliminare le informazioni lesive o obsolete e di smentire i fake. Una seconda strada da seguire può essere quella di coltivare ancora e molto la propria identità off- line: mantenendo vivo il proprio sé fisico, l’essere umano può correggere il tiro delle distorsioni rappresentative del sé digitale. Sono strade apparentemente opposte ma che, invece, andrebbero percorse contemporaneamente.
E il diritto quali chance ci offre?
Il diritto fa quello che può, soprattutto in termini di effettività. Certi diritti fondamentali, e gli istituti posti a loro tutela e rimedio, faticano ad oltrepassare le frontiere e a rincorrere le tecnologie. Prima vengono l’educazione, la consapevolezza e la prudenza delle persone.