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Caro Gennaro, condivido gran parte delle tue riflessioni pessimistiche sul sovran- populismo e la crisi della democrazia, anche se, pur non essendo certo un simpatizzante di Matteo Salvini, certi toni mi sembrano eccessivi, come mi sembravano eccessivi ieri quelli usati dai detrattori della ( tua) vecchia destra. Mi ha meravigliato non poco, però, la chiusa del tuo articolo. Resisto alla tentazione di ripetere il vecchio adagio popolare ‘ il lupo perde il pelo ma non il vizio’( a tua formazione culturale non ti portava certo a simpatizzare con la Germania pentita delle sue follie imperialiste) ma non posso non rilevare che le parole da te impiegate-- “Weimar era la Repubblica dell’odio e la fabbrica del totalitarismo. Quando muore una democrazia in genere nessuno corre al suo capezzale. Ci vogliono decenni perché si oda un requiem”-, non fanno onore alla tua intelligenza e alla tua cultura, che ho sempre molto apprezzato e continuo ad apprezzare, memore dei tanti saggi che mi hai inviato e che ho letto e ammirato per il loro anticonformismo e per il loro spessore etico e teorico.
Ti racconto un episodio di cui sono stato protagonista l’anno scorso e che è alle origini della mia ‘ fuoruscita’ dal ‘ Foglio’. Il 7/ 8 luglio, Francesco Cundari, aveva scritto sul quotidiano diretto da Claudio Cerasa una lunga recensione del saggio di Benjamin Carter, La morte della democrazia ( The Feath of Democracy: Hitler’s Rise to Powee and the Downfall of the Weimar Republic). L’entusiasmo dell’ex giornalista dell’’ Unità’ per un libro insopportabilmente apologetico della Repubblica tedesca mi aveva colpito. Cundari, avevo rilevato, «ci riporta a una stagione storiografica che sembrava passata dopo decenni di revisionismo.
È come se Ernst Nolte, George L. Mosse, Renzo De Felice, Walter Laqueur, Domenico Settembrini, Andreas Hillgruber, François Furet, Augusto Del Noce, Hannah Arendt non fossero mai esistiti. Non è il ritorno, il suo, alle interpretazioni più o meno marxiste e gramsciane dei Nicola Tranfaglia, dei Guido Quazza, dei Domenico Losurdo, ma al loro stile di pensiero che divideva la storia in pecore bianche e in pecore nere e a queste ultime non riconosceva né ragioni, né ideali ma, nel migliore dei casi, l’imbecillitas di chi si lascia mobilitare in difesa di interessi non suoi.
Scrive Cundari, citando Hett, «la chiave per capire perché molti tedeschi sostennero Hitler stava anzitutto nel “rifiuto nazista di un mondo razionale basato sui dati di fatto |…| Il trauma della sconfitta spinse milioni di tedeschi a credere a una particolare narrazione della guerra non perché fosse oggettivamente vera ma perché era emotivamente necessaria”. È dunque questo impasto di vittimismo e aggressività, ricerca del capro espiatorio e paura del futuro, narrazioni autoconsolatorie e calcoli sbagliati, a spianare la strada a Hitler».
Chiesi, pertanto al direttore del ‘ Foglio’, di poter pubblicare il mio commento all’articolo e, come sempre nel passato, mi fu concesso.
Sennonché ebbi l’impressione che la mia replica non fosse piaciuta molto sicché, con grande sollievo di Cerasa, ritirai l’articolo, che poi venne pubblicato da Luca Ricolfi sull’’ Hume Page’, la rivista on line della Fondazione David Hume. In effetti, avevo mostrato di non condividere l’entuasismo per una Germania la cui capitale, stando alla testimonianza di Stefan Zweig:” si trasformò nella Babele del mondo. Bar, parchi di divertimento, pub crebbero come funghi. Ragazzi truccati, i fianchi messi in rilievo dalla vita assottigliata ad arte, passeggiavano per la Kurfürstendamm, e non erano soltanto professionisti.|…| Neppure la Roma di Svetonio conobbe orge pari ai balli dei travestiti a Berlino, dove centinaia di uomini in abiti femminili e donne vestite da uomo danzavano sotto gli occhi indulgenti della polizia”.
Detto questo, però, come dimenticare che la classe politica tedesca del primo dopoguerra, erede del Reich di Guglielmo II, fece il possibile e l’impossibile per radicare in Germania un modello di democrazia liberale che, forse non avrebbe incontrato difficoltà insuperabili se non si fosse rovesciata la dinastia degli Hohenzollern, militarista quanto si vuole ma garante della lealtà dell’esercito e della burocrazia, come accennò in una pagina significativa Raymond Aron, che di regimi politici se ne intendeva? ( Gli americani non fecero lo stesso errore quando consentirono all’imperatore Hirohito di rimanere sul trono).
I socialdemocratici Gustav Noske, Friedrich Ebert, Philipp Scheidemann, il popolare Gustav Stresemann furono a torto calunniati dalla storiografia di sinistra— che avrebbe voluto una SPD pronta a spianare la strada alla rivoluzione bolscevica, agli spartachisti, a quella Rosa Luxemburg critica di Lenin da posizioni ‘ movimentistiche’— e, sull’altro versante, vennero consegnati alla damnatio memoriae dalle destre affrante dallo spettacolo della vecchia Germania che cadeva a pezzi. Eppure i loro tentativi sarebbero andati a buon fine se la grande crisi non si fosse abbattuta su un paese fortemente dilacerato da conflitti religiosi, ideologici, culturali, geografici.
Uomini come lo scienziato politico e sociologo Max Weber ( il più grande del secolo) e il giurista Hans Kelsen, economisti e imprenditori come Walter Rathenau ( ricordato di recente sul ‘ Giornale’ da Francesco Perfetti, in occasione della recente pubblicazione del suo saggio del 1919, L’economia nuova, Ed. Aragno) fanno parte del patrimonio ideale di quell’Europa civile che i Konrad Adenauer, gli Alcide De Gasperi, i Robert Schuman vollero ricostruire faticosamente sulle rovine di una guerra voluta dai nemici più feroci e irriducibili di Weimar.
La Germania del primo dopoguerra è un case study particolarmente intriguing per lo studioso del liberalismo inteso come filosofia politica e come modello istituzionale. La sua tragicità sta nell’impossibile convivenza di culture e di visioni del mondo radicalmente opposte ma segnate tutte da un radicalismo assoluto ripugnante a ogni mediazione. Tra l’etica di Goebbels, di Rosenberg, di Salomon e quella di Grosz, di Brecht, di Henrich Mann c’era un abisso incolmabile: mors tua, vita mea, il confronto era tra nemici ontologici non tra appartenenti a una stessa ‘ comunità di destino’. Se ne trae una lezione che non ha perduto nulla della sua attualità: il pluralismo che sta alla base della società aperta non è quello tra valori incompatibili che dividono un popolo in masse ostili e pronte a scannarsi a vicenda. Il vero pluralismo, almeno quello liberale, non è conflitto di valori ma conflitto sul peso e la rilevanza che gli attori politici e sociali danno a valori che tutti condividono.
Di qui l’importanza cruciale di una tradizione interiorizzata dai membri della comunità politica che si riconoscano negli stessi simboli storici, negli stessi ideali di un tempo e che, avvertendo l’orgoglio dell’appartenenza, coltivino, senza complessi, un’identità separata, pur se disposta a accogliere gli ‘ stranieri’ disposti a ‘ nazionalizzarsi’. Weimar conobbe, invece, il rullo compressore di un universalismo comunista e illuminista che inondava di disprezzo la patria— identificata col militarismo junker e con i capitalisti dal volto suino di Grosz— e di un tribalismo che, a parole, la esaltava ma, de facto, la diluiva in una comunità razziale planetaria in cui si perdeva la grande Kultur tedesca alla quale avevano dato un contributo non secondario, di uomini e di idee, gli odiati ebrei.
‘ Andare fino in fondo’, ‘ portare i principi alle loro estreme conseguenze’: è uno stile di pensiero del tutto incompatibile con la ‘ democrazia liberale’, che vive di chiaroscuri, di mediazioni sottili o dichiarate, di un buon senso iscritto in quella che fu per secoli la filosofia dei popoli anglosassoni, l’empirismo. Se la ‘ società civile’ sottostante non è ‘ predisposta’, i tentativi generosi— come quello di ricongiungere la Germania alle grandi democrazie atlantiche-- sono destinati a naufragare e un tedesco fin nel midollo come Thomas Mann si vede costretto a emigrare anche se incarna, come pochi altri, lo spirito più profondo del suo paese, prima che la catastrofe bellica ne avesse orrendamente sfigurato il volto.
Il 15 marzo 1896 Giovanni Giolitti scriveva alla figlia Enrichetta: «Un governo è il portato di secoli, e la peggiore di tutte le costituzioni sarebbe quella che venisse studiata in base a principii astratti e non fosse adatta in tutto e per tutto alle condizioni attuali del paese» e la invitava— lui simbolo dell’Italia aperta alle classi popolari!-- a leggere il libro del ‘ reazionario’ «Taine, Les origines de la France contemporaine e in specie il volume intitolatto La conquete jacobine» per rendersi conto di dove «conduce il voler foggiare un governo partendo da principi astratti». Quando vedo illustri storici del diritto tessere l’elogio della Costituzione di Weimar, mi riconfermo malinconicamente nell’idea che da noi il liberalismo non ha mai messo solide radici: una Costituzione, infatti, è buona non se, ispirandosi ai principi che la Ragione Universale detta urbi et orbi, si propone di cambiare i costumi di un popolo con le leggi ma se fa leggi che tengano conto dei costumi e costruiscano il futuro sulle solide fondamenta del passato.
La classe dirigente weimariana ce la mise tutta per modernizzare civilmente il vecchio Reich. La si può anche accusare di debolezza nei confronti degli avversari della democrazia ma senza dimenticare, caro Malgieri, che un regime politico liberale può ben poco se “la forma non s'accorda all'intenzion dell'arte,. perch'a risponder la materia è sorda”. Ciò non toglie che i buoni europei debbano riguardare bolscevichi e nazisti come due rami dello stesso albero bacato e rendere, omaggio a quei socialdemocratici e a quei popolari che, tra le tempeste della crisi mondiale cercarono ( invano) di impedire al loro paese di precipitare nel baratro.