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Spero che Giuseppe De Rita, anima incontrastata del Censis, legga questa piccola nota a lui dedicata - se mai gli capitasse sotto gli occhi - come elogio della sua figura, tutta particolare e eccentrica, di grande ' commesso di stato', dotato tuttavia del dono rarissimo di restare sempre se stesso. Di possedere uno stile inconfondibile. In una recente intervista concessa a Nicola Mirenzi ( huffingtonpost. it) e pubblicata con il titolo: “Tutta la politica italiana è mossa dal rancore”, De Rita è facilmente sfuggito al tentativo di farsi stringere dentro il solito, per quanto giustificato, tormentone giornalistico sulle cieche intemperanze anti- democratiche del M5S. Nel raccontarsi, da buon sociologo per nulla “disciplinato” e bacchettone, è invece risalito ad una massima del grande René Girard - «il rancore è il lutto di ciò che non è stato» - per dire che il presente di tutti noi ( o quasi?) è dominato dal dolore per un desiderio negato e concludere che all’Italia serve «una carica di libido che non ha più». Non c’è spinta al mutamento, ad un qualsiasi cambio di rotta, senza uno scopo. E lo scopo, prima di essere un progetto, deve essere una necessità profonda, ineludibile. Questo filo rosso lo ha guidato per tutta l’intervista nel parlare di sé: la sua infanzia romana; la propria prestigiosa carriera di ricercatore d’eccezione e di acuto interprete dei mutamenti italiani di più di mezzo secolo, proprio a partire da quando, nei primi anni Sessanta, venne improvvisamente estromesso, con suo profondo risentimento, dalla Svimez ( detto per inciso: là, a me capitò anni dopo di fare sgradevole esperienza di alcuni suoi piccoli saccenti burocrati).
A me De Rita ha fatto sempre pensare ad una persona di straordinaria intelligenza ( dal “cervello fino”): ne sono la dimostrazione le affascinanti formule con cui ha sempre saputo sintetizzare i conflitti della nostra società. Poche parole per dire pagine e pagine di dati ( non è vero che i dati e neppure i fatti parlano da soli!). A fare sintesi così calzanti del tempo presente e dei suoi eventi, delle sue diverse forze in campo, ci vuole una passione vocazionale o una vocazione appassionata capace di guardare soggetti e fenomeni della modernizzazione ( dei suoi vari scatti di crisi e di sviluppo) in modo distaccato, dall’esterno: nella postura - quella che dovrebbe essere di ogni dirigente al comando - di una personalità forte. Di una identità granitica o meglio di un albero dalle profonde radici. L’identità di De Rita si fonda infatti su pochi ma forti elementi, appunto “radicati” nella terra della propria esperienza vissuta.
Ce la ha raccontata con una scioltezza, sincerità, ben rara in un intervistato illustre: famiglia, religione e lavoro. Con qualche derivato autobiografico dalla sua vita popolana a Roma - teatro e romanzo di formazione - di per sé ancora intrisa di valori pre- urbani ( quartieri dal fascino di paesi, prati e campanili, per quanto comunque in odore di sopravvenuta ' mondanità'): giochi, botte, donne e erotismo come forza vitale, qualcosa di animale, animalesco, e cioè pre- umano, dote del resto assai adatta allo slancio vitale originario ma anche alle paure post- umane. E infatti quest’uomo di indubbio potere, e desiderio di potere fare, ha sempre dimostrato scioltezza nell’interpretare i regimi di senso del post- industriale, anzi vi ha visto una apertura alle promesse mancate della civiltà delle macchine, del capitalismo delle grandi organizzazioni. Ha letto positivamente e con nuova “speranza” le forme di capitalismo “familiare” nate in alternativa alla grande fabbrica fordista. Ha valorizzato il localismo comunitario rispetto alla globalizzazione.
Insomma: De Rita - cercate di capirmi - è sempre restato un contadino: del contadino ha coltivato la sua proverbiale astuzia, il suo carattere caparbio, la sua volontà di resistere ad ogni intemperie per difendere la propria famiglia ( casa, chiesa e terra: assai meno ma assai più di “popolo” e di Nazione). Cosa posso dire della volontà di potenza ( lo chiama desiderio, eros, comunità) che vorrebbe vedere risuscitata? Forse solo questo: è appunto volontà di potenza e dunque non sfugge, non può sfuggire, alle leggi della politica e della guerra così come alle etiche del lavoro ( paradossale fonte, il lavoro di classe e di ceto, delle tecnologie che oggi lo hanno distrutto, insieme al capitalismo storico). Ma un uomo di fede religiosa, un uomo che crede in Dio, possiede un buon viatico per agire. Anche di questo parla la sua bella e imperturbabile intervista.