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contributo unificato
E adesso che la legge Zan prova a riprendere il suo travagliato percorso parlamentare, si riaccende lo scontro politico perché le destre -ma non solo- chiedono di soprassedere sul concetto di genere, e di identità di genere. Gridano allo scandalo, come non avessero mai visto l’ellenistico Ermafrodito dormiente del Louvre, e neanche quello della Galleria Borghese a Roma o quello dell’Hermitage di Pietroburgo, o una delle mille e più di mille raffigurazioni delle varianze di genere esistenti sin dai tempi dei Sumeri. Sembrano temere il loro personale turbamento nel dover ragionare, discutere e normare (il che sarebbe come dire il lavoro loro) quel che esiste per l’appunto da tempo immemore: l’intersessualità. Che sin dal secolo scorso, almeno, non è più semplice cosa dì riconoscibilità a livello dei genitali, ma legata all’identità sessuale: a quel che l’individuo sceglie di essere, all’autodeterminazione. E sembrano dunque moralisti o inadeguati perché mentre discutono, molti arrabbattandosi a negare o peggio a sottovalutare l’identità di genere, si allontanano non solo dall’intero mondo occidentale (l’Italia è uno dei pochissimi Paesi a non avere il genere in nessuna sua legge), ma anche dalla italica società civile. “Non sconvolgiamo i bambini”, protestano infatti gli avversari dell’identità di genere in giurisprudenza quando da anni -e precisamente dal 2003- in regime di vacatio legis e grazie all’autonomia di cui gode l’istruzione, in nome della serenità dell’ambiente scolastico dalle elementari all’università è stato creato il principio dell’alias: ogni alunno o studente può comunicare all’istituto scolastico come intende farsi chiamare, e la scuola deve proteggere la segretezza dell’identità sessuale iscritta nei documenti di identificazione ufficiale. Accade dal 2003 -prime Torino, Bologna e la Federico II di Napoli, ultime La Sapienza di Roma, Ca’ Foscari a Venezia, e Palermo- in metà dei 68 atenei italiani. Ma tutto è cominciato sui banchi delle elementari, perché è spesso in età precoce che si manifesta l’intersessualità. Un fenomeno così vasto -anche a stare ai racconti che comunemente si ascoltano- che la Regione Lazio ha anche varato delle linee-guida per i presidi che volessero instaurare l’alias nella loro scuola. Pare poi, per stare al dibattito che ha avvolto la legge Zan che si propone di perseguire i reati d’odio a sfondo sessuale non certo di cristallizzare l’intersessualità, che gli onorevoli non abbiano mai acceso un televisore: la labilità del genere sessuale è stata sdoganata nell’immaginario collettivo anzitutto dalla centrale della cultura nazionalpopolare italiana. Dal Festival di Sanremo, buoni ultimi i Maneskine, ma indietro nel tempo anche Achille Lauro, Conchita Wurst, Madame… E tutto cominciò negli anni Ottanta, con l’irrompere della tendenza androgina alle sfilate di Milano e nella scelta delle modelle -che sono, evidentemente, modelli di vita. Oggi, la contaminazione di stili che propone una star della moda come Stefano Di Michele che disegna le linee Gucci è proprio anzitutto una commistione di generi sessuali. Lungo, lunghissimo sarebbe l’esempio nelle serie televisive di culto con personaggi intersessuali, ma su tutti Billions e il/la primo genderqueer televisivo: Asia Kate Dillon, nel ruolo del genietto della finanza Taylor Mason, è di identità non binaria anche nella vita reale. Ed è realmente difficile, osservandola, stabilire se è maschio o femmina: la plastica rappresentazione della varianza di genere che oggi è la genetica a definire, perché alla varianza di genere corrisponde una (vasta) varianza cromosomica. Insomma, anche in questo caso sembra che il Parlamento italiano, o quantomeno una porzione di esso, viva come in un castello feudale, col ponte levatoio alzato, molto più indietro e comunque incapace di comprendere la società che dovrebbe rappresentare. È già successo con il divorzio, l’aborto, la fecondazione eterologa. Su leggi non fatte, o malfatte, son poi dovuti intervenire i cittadini via referendum, o con ricorsi alla Corte costituzionale. Ma alcuni onorevoli sembrano fermi a decenni fa, a quando la forzista ex vedette televisiva Elisabetta Gardini andò alla toilette di Montecitorio e ne uscì urlando in lacrime “c’è un uomo nel bagno delle donne!”. Era Vladimir Luxuria, una delle signore più cortesi di tutto il Parlamento dell’epoca.