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La verifica di gennaio? Si farà a febbraio. Nemmeno il tanto annunciato tagliando della maggioranza post legge di bilancio sfugge alla logica del rinvio, che ha guidato tante scelte – e, soprattutto, non scelte - del Conte 2. Il tutto ha una sua logica per un governo fra ex (?) nemici per la pelle. Governo, dal “salvo intese” alle intese a salve
La verifica di gennaio? Si farà a febbraio. Nemmeno il tanto annunciato tagliando della maggioranza post legge di bilancio sfugge alla logica del rinvio, che ha guidato tante scelte – e, soprattutto, non scelte - del Conte 2. Il tutto ha una sua logica per un governo fra ex (?) nemici per la pelle e che ha fatto del “salvo intese” un tassello centrale dei sui primi mesi di vita. L’attesa per il voto emiliano- romagnolo completa il quadro. Resta, tuttavia, un senso di straniamento davanti all’unico punto di sintesi trovato in questa alba del 2020: l’accordo Pd – 5Stelle sulla legge elettorale proporzionale con sbarramento al 5 per cento. Non proprio la priorità delle priorità.
Inutile ripetere e ripetersi che l’Italia avrebbe invece bisogno di scelte precise, di tempi di reazione della politica più adeguati alla fase e alle tante crisi – aziendali e internazionali – che abbiamo davanti, di riforme capaci di sbloccare il Paese. Sarebbe inutile perché le risposte sarebbero le stesse che da mesi ci accompagnano: “Vedremo”; “Faremo un tavolo per confrontarci, sapremo trovare la sintesi”; “Andiamo avanti a lavorare perché sennò Salvini…”. È un problema di comunicazione? Anche, visto che parliamo di una maggioranza frammentata e con partiti e leader in cerca del proprio spazio vitale. Ma è soprattutto un problema politico. Anzi, meglio, di assenza di politica. Dov’è infatti la politica nel rinviare il confronto di maggioranza sulla prescrizione ( nel frattempo la riforma è entrata tranquillamente in vigore)? Dov’è la politica nel continuare ad annunciare modifiche ai decreti sicurezza senza poi procedere in quella direzione? E, ancora, dov’è la politica nella rincorsa frenetica al tweet, al post, alla dichiarazione ai tg per rilanciare la polemica del giorno?
Semplicemente la politica non c’è. E non c’è perché i partiti della maggioranza vivono – seppur con gradazioni diverse – fasi di passaggio delicate e necessitano di frammenti di visibilità. Accade così che Matteo Renzi vesta i panni alternativamente del responsabile – è stato indubbiamente l’artefice della svolta che ha fatto nascere l’esecutivo – e del guastatore; o che Roberto Speranza rispolveri – anche come reazione all’accordo dem- grillini sullo sbarramento al 5 per cento - la vecchia polemica sull’articolo 18.
E il Partito Democratico? Si prepara a una sorta di conclave nel reatino, cercando quotidianamente - o quasi - di arginare la voglia dei partner di piazzare le proprie bandiere identitarie con la conseguenza che di bandierine dem se ne vedono decisamente poche. E, sondaggi alla mano, è una strategia che non paga. Del travaglio dei 5Stelle molto si è scritto e molto si scriverà visto che ogni giorno porta con sé tensioni nel MoVimento. Un susseguirsi di problemi che malcelano il vero problema grillino: l’assenza di un’identità. Con la Lega prima, col Pd poi, l’ M5S ha mostrato la sua doppia anima: populista e istituzionale, di destra e di centrosinistra, di piazza e di governo. Perdendo ogni volta pezzi e consensi. Per un partito questo sarebbe il momento di un confronto congressuale, di una riflessione interna.
Gli stati generali annunciati per marzo dovrebbero essere un passo in questa direzione, ma la sensazione è che il MoVimento non sappia e non possa rispondere alla domanda: “Chi siamo?”. «L’M5S è in crisi di identità perché ha scelto di non averne una», ha scritto qualche giorno fa un ex come Gregoria De Falco. Diremmo piuttosto che l’M5S è obbligato a non avere un’identità definita. Così è nato e cresciuto, calamitando dissensi, rabbia e pulsioni varie in un unico indistinto contenitore. È stata la sua forza, è il suo grande limite.
Tracciare un identikit di se stessi obbligherebbe i 5Stelle a scegliere un profilo e, scegliendo, a perdere un pezzo del proprio mondo. E, poi, quale profilo? Di Maio, Grillo, Casaleggio e Di Battista hanno visioni diverse, incarnano aspirazioni, suggestioni e desideri differenti della galassia grillina.
È possibile una sintesi? No. È inevitabile una rottura? Nemmeno. Semmai questi diversi “grillismi” sono destinati a convivere nello stesso contenitore per essere utilizzati alla bisogna a seconda delle esigenze e dell’obiettivo primario: governare e gestire il potere. Non interessa con chi – Lega o Pd non ha fatto e non farà differenza ma interessa entrare nelle stanze che contano e realizzare alcuni punti del programma pentastellato anche a costo di dolorosi passi falsi. In questo contesto puntare tutto, come fanno alcuni dirigenti dem, sulla certezza che il M5S si piegherà a una logica bipolare e sperare in una sua convergenza nel campo progressista minaccia di diventare un errore politico. Concedergli una legge elettorale proporzionale poi, un clamoroso autogol che darebbe a Di Maio e soci la possibilità di essere l’ago della bilancia della prossima stagione politica.