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Il linguaggio della critica letteraria è, nel sentimento comune, settario, antidemocratico, autorefenziale ( mentre la critica, intesa come ermeneutica, è semmai un dialogo fra l’interprete, il testo e gli altri suoi lettori). La comunicazione, nelle forme più varie della divulgazione, sarebbe invece ciò che avvicina le opere d’arte alle masse, al pubblico.
Questa contrapposizione ne porta con sé o forse discende, deriva da una contrapposizione ancora più antica: quella tra cultura alta e Masscult, secondo la categoria introdotta da Dwight Macdonald all’inizio degli anni Sessanta. Masscult che, a differenza della cultura genuinamente popolare, non nascerebbe in una zona protetta dallo sguardo e dal controllo dei signori, ma verrebbe calato dall’alto sulle masse, considerate un unicum indifferenziato e privo ( o deprivato) di qualunque istanza di diversità e individuazione. Possiamo ripensare alla categoria a partire dalla nuova edizione di Masscult e Midcult ( a cura di Mauro Maraschi per Piano B), e, insieme, recuperare l’altra distinzione fondamentale, quella tra cultura di massa ( corriva e indifferenziata) e Midcult ( che ha invece pretese letterarie e scimmiotta i modelli alti per renderli accessibili a chiunque, per ciò stesso snaturandoli).
Fondamentale a scongiurare l’equivoco populista della cultura per le masse, cioè per il pubblico, ovvero per tutti, che ha conseguenze enormi e inarrestabili su una produzione sempre più staccata dagli standard qualitativi del canone e sempre più proiettata nella dimensione del successo ( più ipotetico che verificabile, tra l’altro, rispetto ai libri, a differenza ad esempio delle nuove tecnologie, per le quali esiste effettivamente un mercato). È ovvio ma anche molto acuto quello che disse Macdonald negli anni Sessanta: il produttore tratta il pubblico come plebaglia e pensa che il gioco al ribasso gli possa garantire il fatturato, ma è al tempo stesso lì a trepidare se per caso gli incassi della prima settimana non sono conformi alle aspettative.
A vincere, apparentemente, è comunque il pubblico: imprevedibile, ingovernabile, tanto è vero che non tutti i film hollywoodiani sbancano il botteghino e non esiste la regola del best- seller. Le dinamiche che Massult e Midcult demistifica sono in parte ancora attuali, soprattutto per quello che riguarda il mercato dei libri: per l’editore, più libri pubblicati equivale tutt’ora a meno costi, prova ne sia che il principio della decrescita, misura apparsa improcrastinabile durante la crisi nera del 2011- 2012, non si è mai più applicato, e le case editrici si sono salvate ( in parte) consociandosi in macro- holding.
Quello che è cambiato è l’enorme apporto della comunicazione online. E non solo nei siti, spazi più o meno organizzati e adibiti alla discussione letteraria, ma all’intero di microcontesti in cui il singolo è tornato arbitro di giudizio e il Masscult e il Midcult appaiono qualcosa di molto diverso, più frammentato, meno “omogeneizzato” rispetto ai tempi di Macdonald. Il criterio con cui si giudicano i libri non sono più tanto le vendite, che conoscono solo gli editori con l’accesso alle famigerate Nielsen da cui traggono, a quel che si sente, un’impressione generalizzata di grande sconforto e pessimismo, quanto lo sharing. Se Facebook è un posto dove le gerarchie contano pur qualcosa e il capitale reputazionale conquistato fuori è ancora un fattore di ascesa e consolidamento del consenso ( una rubrica su un giornale, una trasmissione in radio, uno spazio di contrattazione al di fuori, fruttano più like) la novità è però Instagram, un mondo in cui i libri sono non oggetto di discussione, come accade, sia pur in modo sommario e senza troppo rispetto dei codici, delle forme, delle gerarchie ( guai se accademiche!) negli altri social, ma sono un’immagine fra tante, un feticcio, un invito a sognare. C’è un genere fotografico che definirei dei libri con fette biscottate: non servono tante chiacchiere, basta un caffellatte, la copertina, una frasetta o due e decolla L’arminuta.
La grande diatriba che divide critica e comunicazione, da quando esistono l’una e l’altra, è l’idea dell’influenzabilità delle masse: talmente eclatante, ormai, che esiste una professione nuova, su internet, che si chiama propriamente influencer e una pratica che si chiama endorsement, l’abbrivio di un famoso per il lancio di un qualunque prodotto. Resiste ancora, però, ed è anzi una larga maggioranza nel mondo editoriale, una nutrita schiera di autori, giornalisti, operatori culturali, finanche blogger persuasi ( e chissà se realmente convinti) della forza dell’opera, a prescindere dai dati materiali o dalle strategie di propaganda. Un’opera si impone per quell’x- factor che la distingue da tutte le altre e la fa diventare un best- seller mondiale, senza che si debba pensare necessariamente a qualcuno dietro che ci investe, che la lancia con ogni mezzo, che le crea un terreno favorevole in ogni modo. Queste sarebbero ossessioni da autori frustrati: la realtà è che alcune opere hanno l’x- factor, altre no, punto.
Peccato che, come scriveva Macdonald, certe opere si leggano semplicemente perché non ce ne sono altre, perché l’alternativa a un prodotto di mercato non viene nemmeno presa in considerazione dagli editori e il gusto del pubblico si educa, se di educazione e non di inebetimento programmatico si deve parlare, sempre più al ribasso. Macdonald individua per questo fenomeno una causa precisa, ovvero il cattivo gusto degli editori. Può darsi: ma è un cattivo gusto che non ha il potere di imporsi da solo, che rende conto a un pubblico e che ha un contraltare giudice e vigile. Ma ce l’ha davvero? Forse no, non più.
Chi giudicava o vigilava nella cosiddetta società letteraria o dalle terze pagine è respinto sempre più ai margini e questo già dagli anni Novanta, quando Segre aprì le geremiadi sulla critica e Lavagetto, un decennio dopo, le fece il funerale. Sono d’accordo con quello che scrive un autore Midcult, scriveva Macdonald, ma combatterò fino all’ultimo respiro contro il suo diritto di dirlo in quel modo. Macdonald: aristrocratico ed elitista ( ma anche anarchico e pacifista) degli anni Sessanta. Oggi se provi a dire che un libro è scritto male sei invidioso perché ha successo, oppure sei un relitto della neoavanguardia. Cioè, in ogni caso, sei rimasto agli anni Sessanta. Aggiornati, o almeno comincia a comprarti le fette biscottate.