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Cosa riservi il futuro a Matteo Salvini, se riuscirà o meno a trasformare in governo le sue indiscutibili doti di propagandista e agitatore, nessuno può oggi dirlo. Ma sin qui si può invece affermare che nessuno è riuscito quanto lui a incidere sui partiti esistenti, a mutarli geneticamente, svuotarli, disarticolarli.
Il primo è stato proprio la Lega Nord. Il partito con cui oggi Salvini tenta la scalata al governo ha ben poco in comune con la Lega di Umberto Bossi, in nessuna delle sue versioni: il partito “federalista” del settentrione, quello secessionista padana, il partito di governo di questo millennio. Di quella Lega Salvini ha mantenuto gli umori rancorosi, si è rivolto, allargandola, alla stessa base sociale, ha recuperato i toni ringhiosi del primo Bossi, che in realtà la Lega aveva deposto al momento di tornare al governo con Berlusconi nei primi anni 2000. Ma nel profondo ha stravolto gli obiettivi, la ragione sociale e la struttura interna della Lega trasformandola nel suo partito, modellato su se stesso.
Le lacerazioni di Fi non possono essere tutte addebitate al leader leghista. Preesistevano. Si erano sempre più acuite via via che, col passare degli anni, Silvio Berlusconi, unico vero collante del partito azzurro, vedeva indebolirsi la sua presa. Su quel castello diventato fragile Salvini si è abbattuto come un ciclone, mettendo in moto una serie di processi centrifughi che non accenna a placarsi e il cui risultato, in termini di voti, è il progressivo e implacabile svuotamento del serbatoio elettorale forzista.
Con l'M5S la missione sembrava più difficile. Quello era un partito sulla cresta dell'onda, non in declino come l'armata di Arcore. Un partito fortemente ideologico che nel 2018 aveva stravinto d'impeto le elezioni e in Parlamento vantava una forza doppia rispetto a quella dell'alleato di governo. Salvini non ha puntato ha spaccare il gruppo dirigente, non ha cercato di innescare anche qui dinamiche centrifughe. Ha scommesso sul divorzio tra quel vertice e una parte sostanziosa della base elettorale. Ha offerto alla parte più affine alla base leghista dell'elettorato pentastellato, quella più animata dagli stessi umori più che dalla stessa ideologia, un prodotto migliore. Più netto. Più inferocito. Più drastico.
L'ultima vittima di Matteo Salvini è il Pd. Questione di tattica, non di strategia. Pescare nel bacino elettorale dem non è mai stato obiettivo del leghista. Quell'esodo c'è, ma c'è da decenni e porta la firma dell'ex iscritto al Pci Umberto Bossi, non quella dell'ex “comunista padano” Salvini. Ma quando si è trattato di giocare di sponda, chissà quanto esplicitamente, il leader della Lega non ha esitato a strizzare l'occhio al nemico numero uno Zingaretti. Lo stato di guerra civile permanente nel quale versa il Pd ha fatto il resto. Un partito che da anni si lacerava sull'opportunità o meno di intavolare dialoghi e trattative con l'M5S è infine esploso quando nel suo campo è entrato il capo leghista.
E' certo che Salvini mirasse a questi risultati. Ma se è riuscito tutto sommato con estrema facilità a scompaginare in meno di due anni l'intero quadro politico italiano è perché quel quadro era già minato da una debolezza intrinseca. La bomba Salvini è esplosa alla fine di un decennio segnato dal miraggio “né di destra né di sinistra” ( messo in campo per primo, con larghissimo anticipo, proprio da Bossi). Era la formula magica che permetteva ai 5S di pescare voti ovunque, ma era anche la chiave del Pd renziano, per cui la collocazione nel “centrosinistra” era pura liturgia, e in realtà persino l'ultima Forza Italia si connotava come punto di riferimento dei “moderati” più che della destra, tanto che sul piano della giustizia e in alcune aree, come quella di Mara Carfagna, anche della difesa dei diritti era spesso più a sinistra del Pd.
Uscita di scena An, le bandiere tradizionali della sinistra e della destra erano rimaste nelle mani di formazioni minori, la sinistra radicale, devastata dalle sue stesse divisioni dottrinarie e la destra di FdI, costretta in un perimetro limitato dall'ombra lunga del Msi neofascista.
La grande bugia del “né di destra né di sinistra” era la fragilità strutturale insita in quella mappa politica. Salvini è irrotto in campo presentandosi come forza apertamente di destra. Senza discendenze genealogiche scomode con il neofascismo ma neppure chiuso nel recinto, diventato all'improvviso angusto, del moderatismo. Salvini, comunque vada a finire la sua parabola politica, ha svelato l'inganno nascosto dietro quella formula ipocrita e con ciò ha provocato le detonazioni a catena che hanno squassato Fi e smnatellato il rapporto fiduciario tra i vertici 5S e la loro base. Ancora oggi il suo asso nella manica è l'aver capito per primo e quasi da solo che quella pudibonda negazione di un'appartenenza alla destra o alla sinistra, cresciuta prima che la crisi del 2008 cambiasse tutto, ha fatto il suo tempo.