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Più dell’Umbria, più della manovra che non riesce a uscire dalla raffica di polemiche, persino più della possibile sconfitta del Pd nella roccaforte emiliana, l’Ilva rappresenta la Waterloo di questa maggioranza e ne indica la ragione di fondo: la natura stessa del M5S, le sue contraddizioni insanabili, il suo rapporto lasco con la realtà.
Più di ogni altro partito o movimento in Italia, l’M5S è nato ed è cresciuto su basi esclusivamente ideologiche. Un’ideologia precisa e rigida, incompatibile con il pragmatismo, inconciliabile con la mediazione, dunque impossibilitata a misurarsi con la realtà, se non, forse, in condizioni non solo di governo con maggioranza assoluta ma anche di poteri dittatoriali.
Di Maio, un ragazzo ambizioso, ha provato a quadrare il cerchio, rendendo il Movimento una forza pragmatica senza però accettare in cambio il sacrificio della componente ideologica e integralista. Il risultato non poteva che essere disastroso e di quel disastro l’Ilva è coronamento. Di Maio ha ondeggiato, si è spinto avanti per poi arretrare. Alla fine è rimasto paralizzato e immobile, ostaggio dello stesso partito che dovrebbe guidare e che non era disposto ad accettare una condizione, lo scudo penale per ArcelorMittal, concordata dal medesimo Di Maio e in tutta evidenza imprescindibile per la multinazionale anglo- indiana.
L’Ilva non è un caso particolare, reso eccezionale dalla gestione dei Riva e dalla tolleranza di cui quella gestione ha goduto per anni. Parlare della più grande e più letale acciaieria d’Europa, la fabbrica di cui Taranto vive e muore, implica in questo caso alludere all’intero modello di sviluppo. Sarà bene segnalare che è stato quello il vero elemento che ha corroso rapidamente la maggioranza gialloverde. Non l’immigrazione o la giustizia, temi sui quali le tensioni sarebbero state governabili ma l’unico fronte sul quale, non a caso, il contratto iniziale aveva scelto di glissare, come se si trattasse di un particolare.
Era vero il contrario. L’argomento era stato accantonato proprio perché troppo enorme e troppo inconciliabilmente conflittuale per poter essere sbrigativamente risolto in due righette di contratto. Il problema è che non fu risolto neanche nei mesi di governo e, al contrario, gli scarni risultati elettorali dei Cinquestelle resero il conflitto ancor meno risolubile. La Lega, forte delle vittorie elettorali, tentò di forzare e di imporsi, in uno scontro a tutto campo di cui la Tav era il vessillo vistoso ma proprio l’Ilva il settore più incandescente e critico dell’intero fronte. Il rapporto tra i due partiti si è logorato in quella battaglia quotidiana sul modello di sviluppo e su quella divaricazione si è poi incuneato Conte, approfittandone per trasformare i Pentastellati, senza neppure consultarli, da movimento euroscettico in bastione della fedeltà alla Ue.
Senza quella precedente frattura, la missione sarebbe stata per l’allora e ancora ora premier impossibile. A maggioranza cambiata, il Pd ha tentato di seguire la linea opposta a quella di Salvini nel precedente esecutivo. Con l’obiettivo di stringere patti elettorali di lunga durata con l’M5S ha ritenuto opportuno mostrare cedevolezza invece che puntare i piedi. Solo che a esigere il pedaggio è stata in questo caso la realtà, essendo evidente che l’assoluta mancanza di una politica industriale può essere redditizio in termini di posizionamenti politici, può partorire alleanza e coalizioni, però non può portare nessun risultato positivo.
Quando si dice, come è spesso capitato dopo l’Umbria, che l’M5S non può stare in una coalizione, si intende in realtà proprio questo. Si può faticosamente provare a conciliare quell’ideologia con posizioni diverse sulla carta ma non nella realtà.
O almeno non senza pagare i prezzi che l’Italia sta pagando ora. Per questo la vocazione originaria dei Cinquestelle era evitare rigorosamente alleanze e conquistare il governo da soli. Anche in quel caso la realtà avrebbe reclamato il pedaggio, ma almeno non ci sarebbero stati problemi di incompatibilità e/ o paralisi nel governo di turno.
Quell’obiettivo, possibile fino al 2018, è oggi inarrivabile. Beppe Grillo, che in fondo tra tutti è il più politico, lo ha capito per tempo ripiegando su una sorta di piano B: la colonizzazione del Pd dall’interno di una maggioranza con quello stesso partito. Ma è anche quella una partita persa in partenza.
Perché non si può fondare un movimento sulla base della massima rigidità ideologica e poi pretendere di farne un giunco flessibile.