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Sono passati trent’anni esatti e un giorno dalla strage che uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la scorta. E visto che il nostro quotidiano non esce di lunedì, ci è toccato assistere impotenti al fiume di parole, al diluvio di frasi fatte spese per ricordare il magistrato più importante e decisivo della storia della Repubblica. E nel mare di retorica che ha inondato giornali, radio e tv - e che di certo la disincantata ironia di Falcone avrebbe accolto con un ghigno sardonico e col sopracciglio alzato - quello che proprio non siamo riusciti a digerire è il viziaccio tutto italiano di piegare il pensiero del “caro estinto” ai propri miseri interessi, alle battaglie di basso cabotaggio. E così, ancora una volta, abbiamo assistito allo scempio e alla rimozione di una parte centrale del suo pensiero; si tratta della parte più scomoda e meno spendibile sul mercato delle polemiche manichee e difficilmente riducibile a slogan da intonare nelle inutili parate autocelebrative. Distraendo ogni forma di complessità dal suo pensiero articolato e addirittura sofferto, Falcone è divenuto “uomo a una dimensione”. Ma celebrarlo e nello stesso tempo deturpare le sue idee, è frutto di una violenza sottile e intollerabile. Con gesto di rara brutalità, è stata dunque rimossa la “poetica” del “metodico dubbio” con la quale Falcone ha affrontato le sfide del Diritto. Un dubbio coltivato con cura che lo ha convinto, per esempio, della inesistenza del famigerato terzo livello, ovvero quel luogo leggendario in cui mafia e politica si fonderebbero per dar vita, nelle fantasie di molti, troppi inquirenti, al leviatano che in questi decenni avrebbe governato il paese in modo occulto. Ecco, per Falcone quel “terzo livello”, quella ossessione giudiziaria che ha portato fuori strada le indagini antimafia degli ultimi 20 anni ( dal fallimentare processo ad Andreotti al teorema sulla trattativa Stato- mafia), non esisteva. «Ho detto spesso che non esiste il terzo livello - spiegò infatti Falcone -. E Sopra i vertici di Cosa Nostra non esiste nulla e non vi è affatto una connessione organica tra partiti o fette dipartiti e le organizzazioni mafiose. Il fenomeno è molto più articolato e complesso e come tale molto più sfuggente alla repressione penale». Ma non è tutto. Nessuno sospetterà che Falcone era favorevole alla separazione delle carriere. Proprio così: il magistrato simbolo dell’antimafia era convinto che l’autonomia della magistratura si sarebbe salvata separando i giudici dalle procure. “Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti». Ma a quanto pare la lezione non è servita: dopo averlo isolato fisicamente, il grumo mediatico- giudiziario che ha generato e nutrito il pensiero unico del Paese, sta cannibalizzando il suo pensiero. Noi non ci stiamo: non è così che si celebra Falcone.