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Il cammino per il riconoscimento dei diritti delle donne come diritti umani è stato lungo e impervio, e solo nel secolo scorso -ieri nella storia dell’umanità- è stato approvato il primo strumento legalmente vincolante che esplicitamente sancisce l’obbligo degli Stati di dovuta diligenza nel predisporre tutte le misure necessarie a porre fine alla discriminazione contro le donne in tutte le sue forme, e in tutti gli ambiti della vita.Stiamo parlando della Cedaw, la Convenzione Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione delle donne, entrata in vigore nel 1981 e ad oggi ratificata da oltre due terzi degli Stati membri, inclusa la Turchia. Il secondo passo è stato compiuto in questo secolo, con l’adozione di due strumenti regionali legalmente vincolanti per la lotta alla violenza maschile contro le donne: la Convenzione di Belem do Parà e la Convenzione di Istanbul. O meglio, la Convenzione interamericana per prevenire, sanzionare e sradicare la violenza contro la donna, entrata in vigore nel 1995, e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, entrata in vigore nel 2014. Sono molti i governi europei che fin da subito hanno dimostrato allergia verso questa Convenzione: il Parlamento ungherese, e quello slovacco hanno votato contro la sua ratifica. Bulgaria, Repubblica Ceca, Lettonia e Lituania hanno solo firmato. La Polonia ha iniziato nel 2020 il processo di ritiro dalla Convenzione di Istanbul, liquidandola come “una fantasia e un’invenzione femminista volta a giustificare l’ideologia gay”, secondo le parole del ministro della Giustizia, Zbigniew Ziobro. Le antipatie dei leader nazionalisti europei vanno lette per quello che sono, e cioè l’espressione, nel rispetto formale delle procedure democratiche nazionali e di quelle previste dalla Convenzione per il ritiro, di un maschilismo diffuso, volto a mettere in discussione i diritti delle donne e spaventato dall’ideologia gender.Da ultimo, il gran rifiuto della Turchia. O meglio, di Erdogan, il quale, approfittando dei superpoteri conferitigli dalla riforma costituzionale, con una circolare (tale è di fatto il valore di una decisione presidenziale nel sistema delle fonti) si è autoassegnato il potere di ritirare il Paese dal trattato ratificato, così bypassando il Parlamento, in barba agli articoli 90 e 104 della Costituzione turca. Ha deciso di iniziare dalla Convenzione di Istanbul, e, giusto per dimostrare ancora una volta al Consiglio d’Europa chi comanda, ha pure deciso di farlo fregandosenebellamente dei convenevoli previsti dall’articolo 80 della Convenzione, cioè senza procedere alla previa notifica di preavviso al Segretario generale del Consiglio d’Europa, che avrebbe aperto il periodo finestra di tre mesi antecedente all’acquisto di efficacia del ritiro. I significati simbolici di questo gesto sono molteplici, e vanno letti tutti insieme per coglierne la gravità. In primo luogo, in un Paese che primeggia in Europa per numero di femminicidi, cancella il protagonismo che le associazioni femminili turche avevano avuto sia nella fase redazionale della Convenzione, sia nella fase di scelta della candidata nazionale per il Grevio, l’organismo di monitoraggio della Convenzione, ed esclude dall’accesso a una protezione effettiva tutte le donne straniere, irregolari o non sposate, che non sono ammesse nelle case rifugio governative. Ribadisce dentro e fuori dai confini chi comanda, cioè lui. E la totale irrilevanza del Parlamento.La comunicazione di mezzanotte sul ritiro dalla Convenzione di Istanbul è stato un colpo di genio per spostare l’attenzione mediatica dal più grave colpo assestato alla democrazia turca dopo la riforma costituzionale, in corso nella stessa settimana. Il Procuratore capo della Cassazione ha chiesto infatti lo scioglimento dell’Hdp, con l’interdizione di 687 suoi membri dall’esercizio dell’attività politica perché accusati di sostegno al terrorismo. Se la Corte costituzionale confermasse l’accusa, sarebbe l’ottavo partito filocurdo ad essere chiuso, e segnerebbe la strada verso il consolidamento definitivo di una dittatura islamista e nazionalista in Turchia. Tutto questo, durante la settimana del Newroz, il capodanno curdo, e mentre si teme per le condizioni di salute Abdullah Ocalan, isolato nella prigione di Imrali. Ora, resta da vedere quale sarà la risposta dalle piazze turche, perché se Erdogan reclama potere e obbedienza, il popolo reclama democrazia e diritti. Quel che è certo, è che per ora le donne di tutta Europa si sono unite nelle piazze a quelle della Turchia, cantando gli stessi slogan: “We will not be quiet, we are not afraid, we do not obey!”.