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Con un riflesso di coraggio mischiato a disperazione, nel momento più difficile del suo percorso di governo Giuseppe Conte prova a rovesciare la condizione di minorità che l’ha accompagnato fin dal giuramento al Quirinale. Gioca l’ultima carta che gli rimane prima di arrendersi all’impossibilità di proseguire: dimostrare che da palazzo Chigi si può e si deve guidare la fase che porta alla scrittura della nuova, «complessa» legge di Stabilità con mano ferma e capace. A patto che ci sia quello che finora è mancato e che l’infinita campagna elettorale ha squadernato: la leale collaborazione tra i leader delle due forze di governo. Che non si esaurisce nelle dichiarazioni formali ma deve diventare prassi e impegno «senza prevaricazioni di ruoli e senza delegittimazioni continue».
Se c’era bisogno di illuminare quanto la situazione politica fosse sfilacciata fin sull’orlo della irrecuperabilità, la conferenza stampa - ma meglio si dovrebbe dire l’accorato appello - del presidente del Consiglio l’ha chiarito senza ombre. Ed ha sprigionato anche la paradossalità di un capo di governo costretto a servirsi dei microfoni rivolti ai media per richiamare chi lo sostiene al senso di responsabilità.
Appunto una debolezza sostanziale che Conte ora prova a ribaltare in un singulto di autorità. Nelle sue parole si è intuita l’eco delle preoccupazioni del Colle, il timore che l’Italia scivoli su un piano inclinato che porti all’assalto speculativo dei mercati e alla definitiva perdita di fiducia degli investitori. Conte ha ammesso di non aver intuito quanto la competizione per le urne Europee ( ma c’entravano anche le elezioni in quasi 4000 comuni, no?) avesse squilibrato gli assetti della maggioranza e quanto di conseguenza la situazione complessiva fosse sfuggita di mano. Il tentativo di riacchiapparla e riportarla sotto controllo è esercizio da acrobati. Conte non ha nulla da mettere in campo oltre sé stesso: «Non ci sto a vivacchiare». Dovesse gettare la spugna, ha lasciato intendere, non c’è che lo sbocco elettorale. Un azzardo. Chi lo persegue, dovrà dirlo con la stessa chiarezza usata dal premier.