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Doveva essere un discorso di commiato, quello pronunciato ieri l’altro davanti all’assemblea di Palazzo Madama da Giuseppe Conte. E invece dopo aver parlato per buoni tre quarti d’ora accademici, noblesse oblige, ha dato l’impressione di leggere un discorso d’investitura. Di scuola smaccatamente democristiana. Non a caso è saltato fuori a mezza bocca quel “molto è stato fatto e molto resta da fare”. E giù l’elenco puntuale di quella strage degli innocenti legislativi qualora la legislatura andasse a gambe all’aria con lo scioglimento anticipato ( il più anticipato nella storia della Repubblica) delle Camere.
Non si era messo forse Amintore Fanfani un pacco di giornali sotto i piedi per apparire più alto nel corso di un memorabile congresso della Dc? Ecco, man mano che procedeva la sua filippica contro un Matteo Salvini che gli stava accanto con una mimica facciale degna di un comico, il presidente del Consiglio appariva più alto del solito. Quasi che parlasse stando sulla punta dei piedi. Conte, l’epigono del divo Giulio che ha dato anche lezioni di diritto
Doveva essere un discorso di commiato, quello pronunciato ieri l’altro davanti all’assemblea di Palazzo Madama da Giuseppe Conte. E invece dopo aver parlato per buoni tre quarti d’ora accademici, noblesse oblige, ha dato l’impressione di leggere un discorso d’investitura. Di scuola smaccatamente democristiana. Non a caso è saltato fuori a mezza bocca quel “molto è stato fatto e molto resta da fare”. E giù l’elenco puntuale di quella strage degli innocenti legislativi qualora la legislatura andasse a gambe all’aria con lo scioglimento anticipato ( il più anticipato nella storia della Repubblica) delle Camere.
Non si era messo forse Amintore Fanfani un pacco di giornali sotto i piedi per apparire più alto nel corso di un memorabile congresso della Dc? Ecco, man mano che procedeva la sua filippica contro un Matteo Salvini che gli stava accanto con una mimica facciale degna di un comico, il presidente del Consiglio appariva più alto del solito. Quasi che parlasse stando sulla punta dei piedi.
Più che Fanfani, è stato però l’immarcescibile Giulio Andreotti ( com’è saltato dal tormentone agostano promosso dal Dubbio) a venir fuori quando il j’accuse si faceva più duro, più intenso, più marcato. Solo Andreotti, si pensava fino a ieri l’altro, poteva esprimersi con parole di fuoco avvolte nella carta argentata dei Baci Perugina. Solo Andreotti, con quella bocca a salvadanaio dalle quali uscivano parole come nuvolette di fumo, sapeva picchiare duro con una faccia serafica come quella di Guido Gonella. Del quale si diceva che avesse l’unica faccia da monaca tra le tante facce da prete dei suoi colleghi democristiani.
Fatto sta che il luciferino divo Giulio ha trovato nel professore di diritto civile dell’ateneo fiorentino un suo epigono di tutto rispetto. Ha picchiato duro, Conte. Quanto più forte poteva. Per una buona mezz’ora non ha fatto mai il nome e cognome di Matteo Salvini, ma si è rivolto all’impersonale ministro dell’Interno. Quasi che fosse un’altra persona. Per poi passare a un confidenziale “Matteo”. Mettendogli perfino una mano sulla spalla. E continuando a colpire a più non posso. Però mai alzando il tono della voce. Sempre con un accenno di sorriso sulle labbra.
Un mattatore parlamentare in piena regola. Più che comica, la scena è apparsa surreale. Sì, perché Salvini e tutti quanti i ministri e i sottosegretari non stavano – almeno quelli che sono senatori – nei loro banchi di rappresentanti del popolo. Nossignori. Tutti ai banchi del governo, ai loro posti ministeriali. Quasi che l’opposizione e non la Lega in prima persona avesse presentato una mozione di sfiducia. E a un governo del quale fa tuttora parte, evaporata per far posto a comunicazioni del presidente del Consiglio che sono state un vero e proprio spettacolo pirotecnico.
Si è permesso, Conte, d’impartire a un imbronciato Salvini lezioni di diritto costituzionale e di diritto parlamentare che devono aver mandato in sollucchero il Capo dello Stato. Si sarà leccato i baffi, Sergio Mattarella, ascoltando al Quirinale dallo schermo televisivo le accademiche dissertazioni istituzionali di una personalità dapprima considerata una rarità umana, ma con l’andare del tempo sempre più apprezzata per la sua professionalità, per il suo equilibrio, per la sua sobrietà.
Per quella grammatica e quella sintassi che li accomuna e li distingue – e non solo sotto questo profilo – dai due vicepresidenti del Consiglio. Che parlano tutt’altra lingua. Al punto che non si stupirebbe, Mattarella, se Conte di qui a poco dismettesse i panni del navigato statista democristiano che ha guidato la bellezza di sette governi e indossasse la marsina di Agostino Depretis, il padre del trasformismo. Che per la sua parlantina e la sua ironia potrebbe essere paragonato a buon diritto ad Andreotti.
E allora avremo un governo nuovo con il presidente del Consiglio vecchio? Chissà. Se Cinque stelle e Pd non si capiranno alla svelta, non è escluso un governo ponte guidato magari da un tecnico alla Cottarelli. Perché, per dirla con il grande Eduardo, ha da passa’ ‘ a nuttata. Dopo di che potrebbe spuntare di nuovo Conte. Buona regola è mai dire mai.