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Che il caso- Consip fosse una bufala si sapeva. Non è un caso se i grandi giornali hanno smesso di parlarne. I grandi giornali fanno così: si occupano di un caso giudiziario finché l’accusa appare forte; se a un certo punto l’accusa si smonta, il caso scompare. Nessuno si preoccupa di dare risalto all’innocenza di quelli che erano finiti nel tritacarne. Questa, del resto, è la regola del giornalismo scandalistico, e in Italia il giornalismo scandalistico è quello vincente.
Ora però scopriamo qualcosa di più. Scopriamo che il caso- Consip non è stato solo una bufala, è stato - a quanto pare dalle dichiarazioni dei testimoni chiave - un complotto politico molto serio.
Un complotto che aveva come bersaglio Matteo Renzi e il Pd. E che ha prodotto risultati notevolissimi, se è vero che nel dicembre del 2016, quando iniziò l’operazione- Consip, il Pd era accreditato più o meno del 32 per cento dei consensi elettorali, e da quel momento è iniziata la frana che ha portato via al partito di Renzi più o meno la metà del suo elettorato. È chiaro che non si può risolvere la discussione sul perché della sconfitta storica del Pd con la teoria del complotto. No. Però sarebbe sbagliato non mettere nel conto anche questo.
E soprattutto sarebbe sbagliato non porsi la seguente domanda: dunque in Italia, anche con forze molto limitate, si può realizzare un complotto politico in grado di modificare le sorti del paese? Una volta era necessario controllare l’esercito, la polizia, la televisione, la radio, le prigioni. Ora si possono fare grandiosi complotti con mezzi artigianali.
Se le accuse gravissime del testimone Filippo Vannoni, consegnate al Csm, sono vere ( e ne hanno tutta l’aria) è esattamente così. Se è vero che il testimone Vannoni - cioè il testimone chiave di questa vicenda - fu indotto ad accusare il sottosegretario Lotti di avere “bruciato” l’indagine Consip ( e fu indotto, a quel che lui dice, con metodi assolutamente illegali e del tutto estranei alle consuetudini di un paese democratico), e se è vero quello che dice Vannoni sulla volontà di alcuni inquirenti di colpire direttamente Renzi ( circostanza, peraltro, già prospettata da una magistrata emiliana, e avvalorata dalle informazioni false contenute nell’informativa del capitano Scafarto), vuol dire che alla fine del 2016 e all’inizio del 2017 ci fu una vera e propria congiura contro il primo partito italiano ( che era al governo), organizzata da alcuni carabinieri infedeli, e realizzata con l’appoggio ( consapevole o inconsapevole) di uno o più sostituti procuratori e di un organo di stampa, cioè Il Fatto Quotidiano, al quale fu- rono consegnate le carte segrete e che si occupò di propagandarle e di renderle una bomba atomica contro Renzi e il Pd, nei primi mesi di funzionamento del governo Gentiloni.
Sarà il Csm, e successivamente la Procura di Roma, a stabilire come andarono esattamente i fatti e quali siano, eventualmente, gli aspetti con valore penale di tutta questa brutta vicenda. Noi però oggi sappiamo che un uso distorto della giustizia, da parte di qualche giornale, o viceversa ( un uso distorto del giornalismo da parte di qualche magistrato) può portare a danni irreversibili. La demolizione del Partito democratico e il suo clamoroso e imprevedibile ridimensionamento, e la sua cacciata dall’area di governo, sono frutti di questa operazione, e sono eventi che non possono più in nessun modo essere cambiati. La magistratura ora potrà rendere giustizia a Lotti, e naturalmente anche a Renzi, e probabilmente ai comandanti dei carabinieri che finirono nel tritacarne insieme a Lotti ( for- se anche per via di una guerra interna, ferocissima, al vertice dell’Arma) ma non potrà in nessun modo modificare l’andamento della storia politica. E dunque? Io credo che noi giornalisti dovremmo porci questo problema. L’uso dei giornali per manovre politiche spregiudicate, illegali e reazionarie, non è una questione che può lasciarci indifferenti. Il Caso- Consip fu aperto dal Fatto Quotidiano, è vero, e per diverse settimane ignorato dagli altri giornali, che probabilmente avvertivano l’inconsistenza delle accuse. Poi però, da quando i magistrati iniziarono a passare le carte non solo a Marco Lillo ma ad altri giornalisti di altre testate, per alcuni mesi tutti i grandi giornali entrarono nella scia del Fatto. E restarono in quella scia finché non saltò fuori la storia dell’informativa taroccata del capitano Scafarto e il capitano Scafarto non fu indagato.
Allora io mi chiedo: vale sempre quella frase fatta (“Se io ricevo della carte dai magistrati è mio dovere professionale pubblicarle”) che risolve tutti i dubbi intellettuali ( non dico morali: dico intellettuali) di noi giornalisti? Credo di no. Il giornalismo rischia di diventare un manganello in mano a un pezzo ( il peggiore) della magistratura. Un manganello pericolosissimo per la democrazia. Dal quale diventa impossibile difendersi. Noi possiamo accettare questo? Cioè possiamo accettare di trasformarci da agenti dell’informazione in agenti provocatori?
Io credo di no.