Tra i testimoni dell’attivismo per i diritti umani e contro l’occupazione ci sono anche diversi artisti che utilizzano le loro abilità per raggiungere dove le semplici parole non riescono. Ognuno di loro interpreta la causa in modo unico e personale, contribuendo in maniera diversa alla lotta per la giustizia.

Oggi, mentre la Corte Penale Internazionale emette una sentenza per il fermo immediato delle operazioni militari a Rafah, siamo insieme a Einat Weitzman, attivista e regista teatrale. In passato, Einat è stata un’attrice molto famosa in Israele, ricoprendo diversi ruoli da protagonista. Tuttavia, quasi dieci anni fa, la sua carriera subì un duro colpo a causa del suo attivismo: l’intera industria dello spettacolo e gran parte del suo pubblico le si rivoltarono contro. Einat non poteva camminare per strada senza rischiare di essere avvicinata, importunata e insultata. Il suo agente le consigliò di scusarsi pubblicamente nel tentativo di risolvere una situazione professionale che altrimenti sarebbe diventata irreparabile, ma lei si rifiutò fieramente. Da allora, Einat ha iniziato a utilizzare il teatro come piattaforma per il suo attivismo. Ogni spettacolo che dirige è ispirato a una storia vera, ben documentata e capace di portare all’attenzione del pubblico nuovi aspetti delle logiche dell’apartheid in atto nel suo paese.

Puoi dirci qual è stato il tuo percorso verso questa trasformazione? Come è iniziato tutto?

Tutto è iniziato all’università. Avevo appena consegnato la mia tesi in Arte; a quel tempo ero già piuttosto famosa recitando in serie televisive di successo. Mentre frequentavo, presi una cotta per un ragazzo che seguiva i miei corsi. Non sapevo chi fosse, ci guardavamo da lontano durante le lezioni. Andò avanti così per mesi finché, confidandomi con un’amica, mi disse che era palestinese. Rimasi sorpresa, ma ormai non c’era più nulla da fare: ero completamente innamorata. Ci nascondevamo per la maggior parte del tempo perché, da personaggio pubblico, questa cosa aveva già provocato un mormorio che stava diventando sempre più inopportuno. Era un palestinese con cittadinanza israeliana, ma questo non serviva ad abbattere alcun tabù. Scrivevano cose molto razziste come, ad esempio, che ero stata vista mano nella mano con una persona dalla carnagione olivastra, oppure rispondendo al telefono a un numero sconosciuto, mi capitava di sentire musica araba. Mentre cercavo di non pensare a tutto questo, una sera andammo insieme a conoscere la sua famiglia. Vivevano in un quartiere palestinese molto povero ed io non avevo minimamente idea che esistessero luoghi del genere. Era una realtà incredibilmente diversa da quella che vivevo io, e cominciai a sentirmi fastidiosamente privilegiata nel mio essere famosa, bianca, ebrea. Nessuno mi aveva mai detto che esistessero dei villaggi solo per i palestinesi, e che quelle fossero le condizioni in cui vivevano in un regime limitato di diritti. A quel punto decisi di leggere il più possibile sull’argomento e fu proprio un libro di Asmib Shara, consigliato da mio fratello, un intellettuale palestinese, a proposito di cittadinanza e nazionalismo palestinese, che mi diede la conoscenza e gli strumenti per capire quella parte di realtà che fino a poco tempo prima ignoravo completamente.

E cosa è successo dopo? Quando hai cominciato a dedicarti all’attivismo da regista teatrale?

Fino al 2014, pur essendo già profondamente cambiata, continuai a recitare, godendo della mia popolarità. Quell’anno ci fu una nuova guerra a Gaza e, senza sapere il perché, qualcuno caricò su internet una mia foto del 2006 fatta da un paparazzo, dove indossavo una maglietta con la bandiera palestinese. All’epoca dello scatto non c’era nulla di particolarmente scandaloso, ma nel 2014 venne usata per additarmi come traditrice e nemica del paese, invocando il boicottaggio del mio ultimo film che stava per uscire nelle sale. Ci volle molto poco perché divenisse virale e in ancor meno tempo venni letteralmente sommersa di messaggi d’odio. Non potevo più andare per strada se non camuffandomi il meglio possibile. Mi insultavano, strattonavano, mi urlavano contro e mi sputavano. È stato un vero incubo, ma quando il mio agente mi chiese di scusarmi pubblicamente per quanto avevo fatto, non ebbi un attimo di esitazione e mi rifiutai.

È a questo punto che hai deciso di usare il teatro come veicolo del tuo attivismo?

Sì, a quel punto era chiaro che la mia carriera di attrice faceva parte del mio passato e decisi di andare fino in fondo. Se non potevo certamente contare sul cinema o la televisione, avrei usato il teatro, raccontando alcune tra le tante storie di ingiustizia.

Come scegli i tuoi soggetti? C’è un filone che persegui e che ti guida?

No, ogni volta è diverso. Sia i soggetti che il modo di rappresentarli cambiano sempre. Ho affrontato il tema della detenzione amministrativa, così come quello della demolizione delle case e la confisca dei terreni. Quando la poetessa palestinese Dareen Tatour, con cui ero molto amica, fu arrestata per una poesia, volli lavorare a un monodramma per ridarle quella voce che lo stato le stava negando.

Ora stai lavorando a un nuovo spettacolo?

Sì, sto lavorando a uno spettacolo sulla guerra a Gaza che stiamo vivendo adesso, ma sono in cerca di fondi per realizzarlo. Purtroppo il mio sponsor si è tirato indietro e credo di capire bene perché. Sembrano tutti spaventati a farne parte.

Secondo te perché? Cosa ha questo soggetto di tanto diverso?

È uno spettacolo che porta in scena “The Gospel”, ovvero il sistema di intelligenza artificiale che ha condotto le operazioni militari durante le prime settimane. È un sistema che attivamente trova obiettivi sul campo. Voglio questo soggetto perché questa è la prima guerra “digitale” del secolo. Ci sono stati altri episodi di utilizzo di intelligenza artificiale, ma questo è il primo utilizzo su larga scala. È un argomento molto controverso, da un punto di vista umano e legale, compreso il numero senza precedenti di vittime civili. Sarà una scena composta da due attori, uno rappresentante Israele e il sistema Gospel, molto clinico e descrittivo, portato in scena con una installazione sonora. L’altro sarà portavoce dei sopravvissuti. Purtroppo in questo momento è molto difficile ottenere supporto economico. I partner israeliani temono ripercussioni mentre all’estero non vogliono sentire parlare di Israele e nessuno che abbia a che fare con esso, nemmeno se come nel mio caso il proposito è quello di muovere una forte critica all’operato del governo.

Ci sono ripercussioni per la tua famiglia?

Purtroppo sì, le mie figlie sono state interdette dal frequentare la scuola per circa un mese quest’anno, senza contare che essendo adolescenti, quello che vogliono di più è sentirsi parte di qualcosa ed essere benvolute dai propri amici. Purtroppo ciò che faccio le mette in imbarazzo. Non c’è modo di nascondersi, né ho intenzione di farlo, però capisco come alla loro età possa essere difficile avermi come madre.

Hai mai pensato di lasciare il paese?

A dire il vero non l’ho mai fatto. Amo molto questa terra, ci sono cresciuta e ho sempre pensato che questo fosse il modo migliore per aiutarla. Solo ora, dopo il 7 ottobre, mi rendo veramente conto di quanto questo paese sia sprofondato in un abisso dentro al quale non vedo alcun futuro per me o per le mie figlie. Questa è l’ultima cosa che vorrei fare, d’altra parte non posso non notare come si stia cristallizzando una mentalità pericolosamente ostile e incompatibile con un futuro di pace.