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«Martin Luther King insegnò ai bianchi ad accettare i neri e ai neri che i diritti si potevano conquistare senza cedere alla violenza». Furio Colombo, intellettuale, scrittore, storico inviato per la Rai, La Stampa e La Repubblica, ha raccontato l’America negli anni delle sue rivoluzioni culturali, sociali e civili. Unico giornalista italiano, ha incontrato Martin Luther King quando era ancora uno sconosciuto reverendo di Atlanta e ha partecipato con lui alle marce nelle città del sud fino a quella di Washington, passata alla storia per il discorso che cominciava con “I have a dream”. Ancora, era a Memphis il 4 aprile del 1968 quando - esattamente cinquant’anni fa - il “dottor King” veniva assassinato con un colpo di fucile alla testa, poche ore prima di un comizio. Subito dopo il suo arresto, ha sostenuto l’innocenza del presunto killer, James Earl Ray. Anche lui, come ha sempre ripetuto la vedova King, è convinto che il nome dell’assassino, come quello di John Kennedy, rimarrà tra i misteri insoluti d’America.
Quando ha incontrato per la prima volta Martin Luther King?
Lo conobbi a New York, ad una serata nel salotto di Jean Stein, una cara amica e una signora di un certo potere, grande organizzatrice di eventi in favore del Partito Democratico. Erano gli ultimi mesi del 1959 e King stava costituendo la sua Southern Christian Leadership Conference, per questo era in cerca di fondi. Ricordo questo reverendo che veniva da Atlanta e che mi parlava della sua attività, per poi darmi appuntamento nella sua parrocchia di Auburne Avenue.
E andò a trovarlo?
Sì, lo incontrai per la seconda volta pochi mesi dopo, nella sua chiesa. Mi aspettavo di trovarmi davanti ad una di quelle grandi parrocchie nere in cui si riunivano migliaia di persone, invece la sua era molto piccola, con duecento posti al massimo, in un quartiere della borghesia nera di Atlanta. Lui abitava in una casa lì vicino e mi presentò sua moglie e i suoi figli, in particolare legai con Martin, con il quale mi ritrovai il giorno dell’assassinio del dottor King a Memphis.
Si capiva già che sarebbe diventato il leader di uno dei maggiori movimenti del Novecento?
Non era un uomo appariscente, ma appena ci si parlava si capiva che era uno a cui prestare attenzione. Nonostante fosse un uomo di chiesa, però, il suo non era un carisma miracolistico e parareligioso. Martin Luther King era un leader logico, preciso e organizzato, che si trasformava quando parlava in pubblico ma era molto diverso nel privato. Quando saliva sul suo pulpito o nei palchi delle piazze delle cittadine del sud aveva una capacità oratoria capace di raggiungere in modo straordinario le corde emotive di chi lo ascoltava: è successo anche a me, quando sono entrato nella sua chiesa ho avuto la sensazione di avere davanti un uomo che volevo ascoltare di nuovo.
Una qualità rimasta iconica con il celeberrimo “I have dream”.
Io ho partecipato a molte marce nel sud, soprattutto in Alabama e Louisiana. Ero presente anche il giorno di quel famoso discorso, perchè a quella marcia partecipava anche Joan Baez, alla quale mi legava una profonda amicizia. Ricordo che lei suonò insieme a Bob Dylan e al gruppo Peter, Paul and Mary, stretti tra due ali di folla. Fu un evento straordinario, giornalisticamente e umanamente parlando.
Che America era, quella in cui Martin Luther King marciava?
Allora come oggi, era un’America spaccata politicamente, con sfumature estremiste, forti ma minoritarie, sia a destra che a sinistra. Il Partito Repubblicano era molto istituzionale e rigoroso, con una forte visione economica legata alla tutela delle imprese; il Partito Democratico sosteneva l’esatto inverso, ovvero che era proteggendo il lavoro che si sosteneva il progresso del Paese. A destra, esistevano elementi di esasperazione estremistica che oggi si possono intravedere nella alt- right di Trump; mentre a sinistra prendevano forma movimenti come quello delle Black Panther e di Malcom X. Ecco, sul versante dei neri c’era una forte scheggia di sinistra radicale, in cui si stava sdoganando l’utilizzo delle armi. Ricordando questi due estremismi minoritari ma pericolosi di destra e di sinistra, si coglie compiutamente la grandiosità della rivoluzione di Martin Luther King.
Fu l’uomo giusto al momento giusto?
Introdusse lui in America il concetto della non violenza, guidando una parte notevole del Paese a una rivolta per la conquista dei diritti civili attraverso le vie della pace, anziché accettare quella delle armi. Sul tetto della Cornell University di Ithaca comparvero i fucili, mentre nelle piazze del sud Martin Luther King si faceva manganellare dalla polizia, senza reagire e senza mai cedere. Ripeteva che, nonostante le botte e le prepotenze subite, affermare i diritti dei neri significava dare più diritti anche ai bianchi, perchè chi dà più diritti ha più diritti, per il solo fatto di averli concessi.
Martin Luther King venne assassinato in un motel di Memphis, il 4 aprile di cinquant’anni fa. Lei crede alla ricostruzione ufficiale?
No, io sono sempre stato della stessa opinione della famiglia King: James Earl Ray non era l’assassino ma un capro espiatorio, poco più di un vagabondo, individuato al momento giusto e con i giusti indizi in modo da tranquillizzare l’opinione pubblica sul fatto che l’assassino era stato preso. Per questo ho sostenuto con forza, anche mobilitando gli amici che avevo nel mondo giuridico e politico, la difesa di questo presunto killer.
Non è Ray l’assassino?
No. Io ero a Memphis il giorno del delitto ed ero amico da anni di Andrew Young, il numero due del movimento e l’uomo che era in piedi accanto al dottor King quando il proiettile lo uccise. Dopo la sparatoria, incontrai Young e lui mi indicò il punto di provenienza del colpo e io seguii le indagini, insieme alla troupe della Rai.
E cosa scoprì?
Il Lorraine Motel si trovava in uno dei quartieri peggiori della città, circondato da case pericolanti. Una di queste ospitava un’ospizio per anziani abbandonati e secondo l’Fbi il colpo era stato sparato da lì. Io vi entrai con l’operatore ed esplorai le stanze, incontrando un solo infermiere e nessuno a fermarmi. Parlai con chi era in grado di rispondermi, ma nessuno seppe dirmi nulla sulla presenza di un uomo con un fucile. Inoltre, posso dire con certezza che nell’edificio non c’era traccia del passaggio di un killer.
Come fa a dirlo?
Vede, gli edifici sporchi mantengono le tracce molto meglio di quelli puliti e io, su quel pavimento, non trovai traccia delle impronte degli stivali con suola pesante che tutto il mondo vide addosso a James Earl Ray al momento della fuga. Lo sporco era omogeneo e intatto e prima del nostro passaggio non c’erano impronte di passi coerenti con quelle di un cecchino, né all’ingresso dell’ospizio nè alle finestre orientate verso la terrazza del Lorraine Motel. Io documentai tutto questo per Tv7 e il servizio andò in onda due giorni dopo, insieme ai funerali di Martin Luther King ad Atlanta.
L’omicidio King rimane uno dei misteri insoluti d’America?
Nelle ore successive ne discussi con Jesse Jackson e Andrew Young: eravamo tutti certi che i colpi non potevano essere partiti da dove la polizia diceva che erano stati esplosi. Anche la moglie di Martin Luther King, Coretta, ha sempre sostenuto che non poteva essere andata come le autorità hanno raccontato. Questo omicidio, come quello di Kfk, rimane uno dei delitti misteriosi che hanno segnato la storia americana.
Quanto c’è stato di Martin Luther King nell’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca?
Obama discende in modo diretto da King e non sarebbe mai potuto diventare presidente senza le sue lotte. E’ stato Martin Luther King a educare i bianchi all’accettazione dei neri e a far capire ai neri che non avrebbero ottenuto nulla ricorrendo alla violenza. Grazie a questo insegnamento, Obama ha portato l’America ad essere un paese libero, forte e potente, rispettoso dei diritti e anzi incline ad allargarli.
E oggi, nell’America di Trump in cui i neri muoiono per mano della polizia, cosa resta del sogno di Martin Luther King?
L’acrobazia a rovescio che ha portato all’elezione di Trump è un fenomeno che la sociologia americana ancora non ha spiegato. Si tratta di un fallimento non politico ma culturale, con un incredibile capovolgersi su se stesso dell’edificio americano, andato poi a sistemarsi sui pilastri minoritari di una destra feroce.
E’ stata una svolta imprevedibile?
Io non ricordo di nessun americano che, durante la campagna elettorale, abbia detto di aver paura di una vittoria di Trump. Nessun giornale, nemmeno tra le testate di destra, aveva previsto la sua vittoria e nei giorni successivi - secondo una tradizione giornalistica molto italiana - i media hanno dovuto correre ai ripari, inventando le storie della Rust Belt, degli abbandonati delle periferie e dei salotti troppo frequentati dai democratici. In realtà, l’America è uscita stravolta dal trionfo di un uomo antipatico, grossolano e volgare. Uno sgomento che ha coinvolto anche le destre, che volevano sì un presidente di destra ma non un uomo che avrebbe fatto sfigurare il Paese come oggi sta accadendo, con un arretramento culturale che tutt’ora mette in imbarazzo.
L’America dei diritti è arretrata, quindi?
Io credo sia in atto un fenomeno ancora per nulla indagato e tutto culturale, che l’America non ha ancora avuto il coraggio di dire a se stessa e al mondo. La realtà è che, in silenzio, è stata annullata una parte dell’eredità di Martin Luther King: basti pensare al ritorno dei suprematisti bianchi, che oggi possono esibirsi pubblicamente. Con questo gli americani dovranno fare i conti: con il fatto che nessuno di loro è stato in grado di intuire il fenomeno Trump, prima della sua vittoria. In questo vuoto di comprensione è scomparso l’enorme portato pedagogico dell’esempio di Martin Luther King, ma come ciò sia stato possibile è un mistero.