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Nel lontano luglio del 1977 si riunì il consiglio nazionale della Dc, allora il luogo solenne e cruciale della politica italiana. Presiedeva Aldo Moro. Io ero stato appena eletto segretario dei giovani democristiani e quello era il mio esordio. Moro mi fece sapere che avrei parlato verso le 18, ma dato che si voleva chiudere in serata e gli iscritti a parlare erano un’infinità, avrei dovuto essere il più conciso possibile. Morale: un po’ l’emozione, un po’ l’inesperienza, un po’ i tempi stretti che mi erano stati assegnati, recitai un discorsino di rara povertà politica. E ovviamente me ne resi subito conto. Uscii dall’aula e incrociai De Mita, che allora era un giovane ministro in ascesa.
Mi guardò e mi disse: “Prima di sentirti parlare non ti conoscevo. Ma devo dire che anche dopo averti sentito parlare continuo a non conoscerti”. Non proprio una carezza.
Da quel giorno sono passati più di quarant’anni, e molti li ho spesi a discutere con De Mita, che domani ne compie addirittura novanta. “Discutere”, se vogliamo, è un eufemismo. Ogni incontro con De Mita somiglia infatti a una sfida. Con gli altri leader democristiani i colloqui avevano un’altra intensità. Moro ascoltava e interrogava. Fanfani incalzava, impaziente. Andreotti era garbato e puntuale, ma forse anche indifferente. Rumor era gentile, quasi modesto. Colombo aveva un tratto signorile e cerimonioso. Martinazzoli era immaginifico. Ma ognuno di loro rispettava certe distanze, e magari qualche volta le accentuava. De Mita no. Con lui nessun incontro è mai neutro. Ne esci sempre con il piacere di averlo condiviso o con il gusto amaro di averci litigato. Sensazioni che ho provato e riprovato un’infinità di volte. Per sette anni è stato il capo dei democristiani, ammesso e non concesso che la Dc accettasse il destino di avere un capo. Nel 1982 prese le redini di un partito invecchiato e sfibrato. Provò a rinnovarlo, alternando la pazienza che non era nel suo carattere e l’insofferenza che spesso lo attraversava. Dopo sette anni fu, per così dire, accompagnato alla porta. E dopo di allora credo sia rimasto in lui una sorta di insopprimibile fastidio per certi tratti del suo stesso ambiente. Tant’è che il suo ragionamento non tradisce quasi mai nostalgia per il passato “democristiano”, e semmai cerca di andare più a ritroso, verso le radici del popolarismo sturziano.
Per sette anni De Mita è stato l’uomo più influente nella politica italiana. Il più potente, come si usa dire. Ma i democristiani avevano un rapporto complicato e tortuoso con il potere. La vulgata racconta la storia di un partito legato a filo doppio al suo granitico insediamento di governo. Eppure le cose andrebbero viste più in profondità. Del potere la Dc faceva largo uso, certo. Troppo largo, spesso. Ma al tempo stesso la gran parte dei suoi capi ne temeva le insidie e ne intuiva una certa fragilità. Leonardo Sciascia, l’intellettuale che De Mita forse ama di più, ha scritto una volta di Moro: “Non pare abbia mai avuto letizia di potere. L’ha amato, ma l’ha anche sofferto”.
In questi anni mi son fatto l’idea che De Mita invece il potere non l’abbia mai né troppo amato né troppo sofferto. Il suo gusto, semmai, come racconta lui stesso, è che qualcuno gestisca per suo conto il disegno che ha in mente. Non gli appartengono gesti di rinuncia, né sdegnosi ritiri sotto la tenda. Ma il suo essere in campo, o meglio il suo fare la differenza, sta quasi tutto nella tessitura di una trama politica che lascia agli altri la fatica della gestione e consente a lui il sottile divertimento della progettazione.
I suoi avversari, tutti i suoi avversari, gli riconoscono intelligenza. I suoi amici sanno quanta insofferenza si nasconde nei meandri di quella intelligenza. E i suoi intimi a loro volta conoscono quel pudore nascosto che avvolge intelligenza e insofferenza in una nebbia sottile che solo la confidenza, qualche volta, riesce a penetrare.
Non credo che in queste ore De Mita stia facendo un bilancio. Nè delle vittorie, né delle sconfitte. Le ha sempre attraversate senza fermarcisi più di tanto. Tra i suoi colleghi di avventura, qualcuno s’è gloriato dei successi, qualcun altro si è rammaricato delle cadute, e a qualcuno è captato perfino di trovare gloria proprio nelle difficoltà che ha incontrato. Ognuno di questi stati d’animo fa i conti con un briciolo di nostalgia. Ma è un sentimento che De Mita, per i suoi primi novant’anni di certo non prova.