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Si fa presto a dire dialogo. Ma che vuol dire, in concreto? Va bene che è Natale e immancabili sono gli appelli a scegliere il confronto; gli appelli ad abbassare le barriere. Tuttavia uno dei paradossi più urticanti della vicenda politica italiana consiste nel reclamare a gran voce invocandolo come indispensabile, però assente, ciò che al contrario è a portata di mano. Ma che è assolutamente meglio non cogliere buttando la colpa sugli altri. Il dialogo, in politica, è di questa pasta: fantomatico perché da tutti (salvo vistose eccezioni) invocato, nonché da ciascuno sgambettato. Perfino il capo dello Stato che lo reclama per incarico istituzionale predica nel vuoto. Ritrovandosi al tempo stesso universalmente elogiato e platealmente disatteso. Il fatto è che il dialogo non cade dal cielo come la biblica manna. Non è un accidente atmosferico e neppure il prodotto di un mantra, magico e autodeterminantesi. Al contrario, è il risultato di uno sforzo che si chiama fatica della politica: chi la scantona o è in malafede o ha sbagliato mestiere. Prendiamo Matteo Salvini, che rischia il processo perché gli alleati di un tempo sono diventati gli avversari di ora. Dopo aver mandato avanti il fido Giorgetti, il leader leghista lancia l’idea di un tavolo bipartisan per risolvere le due o tre questioni principali e poi andare a votare. Della serie: più voglia di dialogo di così... In un Paese normale una cosa del genere verrebbe depurata degli aspetti strumentali (sono parecchi) e poi accolta a mo’ di sfida: vediamo cosa davvero vuoi fare. Da noi viene rigettata con sdegno da chi di Salvini è l’alleato di oggi, tipo la Meloni. Respinta come lusinga del demonio da chi era il compagno di ieri: l’M5S. Bollata come “tarantella” da chi è considerato l’alleato sottobanco: Matteo Renzi. E lasciata lì ad essiccare da chi voleva essere alleato (per andare al voto) e non ha potuto: il Pd. Non basta. Il premier Giuseppe Conte spinge per stilare un cronoprogramma di governo a partire da gennaio, e chiede che venga sottoscritto dai partner di coalizione: diciamo che in questo caso l’offerta di dialogo ha i crismi dell’obbligatorietà. Bene: i medesimi partner fanno spallucce e boicottano l’appuntamento. Togliamo di mezzo Conte. Almeno tra contraenti ci si parla, no? Macché. Di Maio non vuol vedere Renzi. Zingaretti per parlare con il ministro degli Esteri deve mandare ambasciate via Beppe Grillo. Insomma dialogo è bello, ma meglio starne fuori. Tanto per fare politica ci sono i talk show. O le piazze delle sardine: per alcuni frutto - ma dai - della mancanza di dialogo.