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Ricapitoliamo. Nella passata legislatura si discusse una proposta di legge sul taglio dei vitalizi agli ex parlamentari nella convinzione che soltanto una legge potesse disciplinare la materia. All’inizio di questa legislatura, Di Maio e i Cinquestelle ebbero una bella pensata. Ritennero che bastassero semplici delibere degli uffici di presidenza delle Camere. Una furbata. Così in quattro e quattr’otto ci sarebbe stata la decisione. E, per di più, a giudicare sui ricorsi sarebbero stati i tribunali delle Camere e non già la magistratura ordinaria, in ossequio al principio dell’autodichia. Per Di Maio, i predetti tribunali, mero strumento di Sua Maestà la Partitocrazia.
Fatto sta che tutti i partiti non capirono ma si adeguarono. Come tanti topolini ciechi, andarono appresso al pifferaio magico grillino. Quei grillini secondo i quali uno vale uno, e l’incompetenza fa più danni della grandine; secondo i quali la decrescita è immancabilmente felice. Questi memorabili detti avrebbero dovuto mettere sull’avviso gli altri partiti. E invece no. Ed ecco la decisione della Camera e poi quella del Senato. La fretta è una cattiva consigliera. Ma non ci si attardò nei dettagli giuridici, dove in genere si nasconde il diavolo, convinti – lor signori – della loro onnipotenza.
Si dà il caso che Di Maio, e i risultati stanno a dimostrarlo, non è nato con la camicia. Tanto è vero che la Corte di Cassazione, sezione unite civili, con l’ordinanza dell’ 8 luglio dell’anno scorso lo ha smentito su tutta la linea. Di Maio aveva detto che i tribunali interni delle Camere avrebbero chinato il capo agli ukase partitocratici, e invece la Corte ha affermato che svolgono funzioni obiettivamente giurisdizionali. Aveva detto che i vitalizi sono odiosi privilegi, e la Corte ha affermato che non sono altro che appendici delle indennità parlamentari: altro che privilegi. Pensava che con la sua furbata avrebbe evitato il giudizio della Consulta, e invece la Corte di Cassazione ha affermato che i predetti tribunali interni possono sollevare questioni di legittimità costituzionale delle norme di legge cui le fonti di autonomia effettuino rinvio. Tre sonori ceffoni che, stando a Manzoni, neppure il Papa potrebbe togliergli.
L’altro giorno, una risibile apocalisse. La Commissione contenzioso del Senato ha dato in parte ragione ai ricorrenti. In attesa della motivazione, il dispositivo è già di per sé eloquente. Ha detto no al taglio così com’è stato disciplinato dal consiglio di presidenza del Senato perché contraddice una consolidata giurisprudenza costituzionale in materia pensionistica.
Più che scagliare pretestuosamente il sasso nei confronti del presidente Caliendo e dei due laici che hanno detto sì, sarebbe interessante sapere perché mai i due leghisti hanno detto no. Per partito preso? O hanno una particolare antipatia nei riguardi della Corte costituzionale e della sua giurisprudenza? Si può conoscere in forza di quale logica strettamente giuridica hanno motivato il loro no? Tanto per illuminare coloro che si stanno agitando senza costrutto.
Difatti la questione sollevata da Sua Maestà la Partitocrazia è mal posta. Se ne fa una questione di opportunità politica. Ma la questione è un’altra: lor signori dovrebbero confutare la sentenza della Commissione contenziosa del Senato con argomentazioni rigorosamente giuridiche. E invece buttano il pallone in tribuna. E in malo modo. Lo spettacolo è desolante. Ancora una volta, tutti a rimorchio dei grillini. Quelli del reddito di cittadinanza che ci costa un occhio della testa e che ha dato lavoro – parola della Corte dei conti – solo al 2% dei titolari del beneficio. Oltre a navigator che non si sono certo ammazzati di fatica, dati i bei risultati. Quelli che amano talmente il popolo che intendono sottrargli il diritto di voto con una legge proporzionale con liste bloccate. Ciò nondimeno, tutti a beccarsi come i polli di Renzo per primeggiare in demagogia. Zingaretti s’improvvisa costituzionalista e sentenzia che sui vitalizi la scelta è insostenibile e sbagliata. Crimi, in mancanza di meglio, prende a bersaglio la presidenza del Senato. Che non c’entra niente e che tuttavia esprime il proprio rincrescimento per la decisione. Vai a capire perché.
Il grillino Di Nicola, sorvolando sull’ordinanza della Cassazione, riparla come un disco rotto di privilegio scandaloso. La vicepresidente del Senato Rossomando ( Pd) condanna la figuraccia che si poteva evitare. Senza però dirci il come e il perché. La Meloni sottolinea che sui vitalizi il suo partito è avanguardista. Batte il tasto sull’opportunità mentre la questione è di legittimità. Salvini promuove una raccolta di firme non si sa bene a quale fine e auspica in sostanza quella giustizia politica che di qui a poco potrebbe spalancargli le porte del carcere per chissà quanto tempo. Un uomo boomerang che gode sempre più a farsi del male. E a mettere la ciliegina sulla torta non poteva mancare il ministro per i Rapporti con il Parlamento, il grillino D’Incà, che sollecita l’appello. Ma, come ministro, dovrebbe starsene zitto e mosca su una questione che attiene alle prerogative parlamentari.
Tra tanto bailamme, una mosca bianca. La capogruppo di Forza Italia alla Camera, Mariastella Gelmini, ha avuto l’ardire – pensate – di affermare che il re è nudo. Ha dichiarato: «Abbiamo tagliato i vitalizi nel 2012 e non pensiamo certamente di contribuire a reintrodurli. Meno che mai in un momento in cui il Paese è in forte sofferenza per la crisi economica. Se il M5S e le altre forze che aspirano a contendergli il primato nell’antipolitica si preoccupassero, oltre che della demagogia da balcone, anche di scrivere bene le norme, non saremmo a questo punto». Vox clamantis in deserto, quella della Gelmini. E questo la dice lunga su una Partitocrazia capace di affermare perfino che Gesù Cristo è morto di freddo, se questa fandonia le procurasse un voto in più. Aveva ragione Abramo Lincoln: si può ingannare un uomo per sempre, tutti per una volta, ma non tutti per sempre. La verità è che con questa rabberciata classe politica andremo di male in peggio. Povera Italia.