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Passato il 1 maggio, gabbato il lavoratore, per mutuare il noto proverbio? Non è un atto d’accusa nei confronti di nessuno. Piuttosto il sommesso appello a non dimenticare, non smarrire una memoria, individuale e collettiva.
Per quanto anomalo, anche questo Primo Maggio lo abbiamo ricordato. La pandemia da Covid- 19 ha impedito cortei, manifestazioni, concerti non virtuali, come da tradizione. Già: da tradizione, rito. Forse nel “male”, nella tragedia di questa quotidiana sofferenza che attanaglia tante persone, nella preoccupazione per l’oggi e il timore del domani, c’è una briciola di “bene”: la pandemia mostra quanto importante, necessario, essenziale sia il lavoro, il modo stesso di lavorare, la dignità del “fare”, uno dei caposaldi della nostra Costituzione. In particolare, il lavoro svolto con passione, determinazione, enorme senso di responsabilità da professionisti che mai come ora dimostrano di essere il pilastro delle nostre società: i medici, gli infermieri, il personale sanitario, i volontari che prestano silenziosa, paziente, quotidiana assistenza ai deboli e soli. I ricercatori, che lavorano per tutti, spesso tra incomprensioni, osservati con sospetto e perfino rancore, con carenza di mezzi e risorse limitate, e in più ostacolati da mille assurdi cavilli imposti da una miope e imbecille burocrazia.
Questo Primo Maggio ci ricorda come siano da ringraziare centomila volte commessi e cassiere dei supermercati, negozianti, farmacisti, gli addetti al trasporto delle merci, le persone al lavoro per produrre mascherine e materiale sanitario… Migliaia di persone impiegate in mestieri con rare soddisfazioni, e infime retribuzioni; e sono comunque la spina dorsale del paese.
La festa di persone venute da paesi lontani, senza volto e senza nome, nessun diritto: piegati per ore, in lavori di coltivazione e agricoltura che rifiutiamo, ma di cui si gustano i frutti e il risultato… Fino a ieri si prestava pochissima attenzione a queste persone; eppure ora che il mondo si è quasi fermato a causa di un oscuro virus, ci si rende conto in che ulteriore baratro si sarebbe precipitati, senza il loro umile, oscuro, quotidiano lavoro.
Va molto di moda, in questi giorni, evocare, per i tempi che verranno, un diverso modo di lavorare. Abbiamo “rubato” agli anglosassoni l’espressione: “smart working”; evidentemente lavorare da casa non ci sembrava adeguato, sufficientemente descrittivo; in inglese è più “sexy”. Ebbene: c’è un “working” che non è per nulla “smart”; non è né bello, né furbo. E’ “semplicemente” un lavoro, lo si può fare solo sul “campo”, non da casa, non nei “borghi”, come teorizzano ora archistar à la page: appunto quello che hanno fatto i tantissimi che cercano di arginare i danni del Coronavirus e di altre simili pandemie. Non sappiamo, al momento, quanti esattamente sono stati uccisi dal Covid- 19 mentre lo combattevano; ma anche loro, a pieno titolo, sono vittime del lavoro.
L’INAIL certifica che sono circa 30mila le denunce di contagi Covid- 19 sul lavoro; e al 21 aprile ha censito 98 morti. Percentualmente, quasi il 46 per cento erano infermieri e tecnici della salute; il 19 per cento operatori socio- sanitari; il 14 per cento medici. Per lo più, concentrati in Lombardia, Piemonte, Emilia- Romagna, Veneto. Sono dati sicuramente approssimati per difetto: la “platea” Inail si riferisce solo ai lavoratori assicurati; non comprende quindi, medici di base, medici liberi professionisti, farmacisti.
E’ partita la cosiddetta Fase 2: quella che tutti ci si augura sia almeno la fine di un inizio. Per conforto, ci ripetiamo che “nessuno sarà lasciato indietro”. E’ il linguaggio del cuore. Quello della mente dice che purtroppo molti indietro resteranno, non ce la faranno a marcare il passo. Covid- 19 a parte, anche in questi ultimi giorni di lockdown ( altra espressione per dire, sostanzialmente, di “non lavoro”), due persone sono comunque morte mentre lavoravano: ad Ariano Irpino un operaio travolto da una trave durante lavori di manutenzione; vicino Grosseto un addetto alla manutenzione degli alberi. Un operaio dell’Ilva di Taranto si è ucciso, proprio alla vigilia del suo 44esimo compleanno.
Il lavoro perché non sia una maledizione presuppone dignità, equa retribuzione.
La pandemia rischia di ulteriormente aggravare una situazione già grave in partenza; tutti gli indicatori pre/ annunciano una lunga crisi, cessazione di attività produttive, massiccia perdita di posti di lavoro.
Sotto questa luce, è una festa del Primo Maggio non solo anomala, ma mesta e dolente.
Non ci si deve rassegnare e scoraggiare, ma al tempo stesso dobbiamo essere consapevoli e con lucidità radicale fare fronte a una difficile realtà. Questo dovrebbe essere il significato e il senso del Primo Maggio che abbiamo in qualche modo festeggiato, e più in generale di tutto questo difficile 2020.