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Professor Giovanni Fiandaca (emerito di diritto penale all’Università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti siciliani), in un colloquio con il Foglio il Ministro Nordio ha detto: “è ovvio che il Nordio editorialista non potrà mai essere uguale al Nordio ministro. Ma fidatevi: non vi deluderemo”. Secondo lei in questi ultimi mesi chi ha prevalso?
Il Nordio ministro ha, come sappiamo, non poco contraddetto il Nordio editorialista. Pretendere di farli coincidere del tutto significherebbe ignorare che la politica concreta è per lo più poco sensibile ai principi astratti ed è spesso pronta a sacrificarli sull’altare di compromessi contingenti o per calcoli elettorali. Certo, esiste un problema di coerenza personale e vi sono limiti di accettabilità delle soluzioni compromissorie. Al posto di Nordio io non avrei ad esempio accettato di fare il ministro o mi sarei già dimesso.
Cosa ne pensa della proposta del sottosegretario di Fdi Andrea Delmastro delle Vedove di mandare i tossicomani in quelle “comunità chiuse in stile Muccioli” per svuotare le carceri?
L’idea di contribuire ad un decremento della popolazione carceraria con una collocazione in comunità degli autori di reato tossicodipendenti non è di per sé cattiva; non poco dipende però da come verrà tradotta e specificata in concreta proposta normativa.
Il vice presidente del Csm Pinelli ha detto in un convegno a proposito di trojan: “limitarne l'uso ai reati di criminalità organizzata credo sia un punto di equilibrio ragionevole nel rapporto tra autorità e libertà”. C’è anche un ddl del forzista Zanettin che chiede di escludere l’impiego del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione. Lei che ne pensa?
Concordo tendenzialmente con il punto di vista espresso da Pinelli. E concordano con lui peraltro anche alcuni magistrati di mia conoscenza sensibili all’esigenza costituzionale di proporzionalità tra il coefficiente di invasività degli strumenti investigativi e il livello di gravità delle forme di criminalità da contrastare. Ma avanzerei qualche dubbio sulla futura compattezza della maggioranza governativa nel sostegno al ddl Zanettin, a causa del timore di essere accusati di voler indebolire la lotta alla corruzione.
Una proposta di Nordio è quella di prevedere in presenza di una richiesta di ordinanza di custodia cautelare che la decisione venga presa da un organo collegiale. Secondo lei è fattibile?
Condividerei l’esigenza di attribuire ad un organo collegiale la competenza a decidere sulla custodia cautelare. Questa è una esigenza che dovrebbe in teoria essere fatta propria anche dal Partito Democratico, considerata l’enfasi con cui sempre più si erge a paladino dei diritti. Il diritto alla libertà personale non rientra forse tra i diritti più importanti, meritevoli di essere salvaguardati nella maniera più scrupolosa?
Che idea si è fatto del caso Cospito e della decisione di Nordio di tenerlo al 41 bis nonostante 3 pareri favorevoli all’Alta sicurezza?
Sul caso Cospito ho scritto un lungo articolo pubblicato sul Foglio lo scorso 10 febbraio, in cui mettevo in evidenza i motivi che giustificano una riflessione approfondita e aggiornata sul 41 bis anche come istituto generale, per verificare come oggi esso vada migliorato nei presupposti, nella estensione e nelle modalità applicative. Quanto alla specifica vicenda Cospito, ritengo anche io che la sottoposizione al 41 bis possa risultare eccessiva, esistendo nelle strutture carcerarie italiane circuiti di sicurezza meno rigidi del carcere duro in senso stretto.
Secondo lei si arriverà ad ottenere la separazione delle carriere con due Csm separati?
Questa è l’impresa più difficile per Nordio Ministro. Considerato come sono andate finora le cose, tenderei ad essere piuttosto scettico.
Come sono i rapporti tra politica e magistratura al momento? L’Anm ha ancora il potere di cestinare determinate proposte del Governo?
Nonostante gli effetti gravemente discreditanti di vicende scandalose come quella ben nota del caso Palamara, e la conseguente perdita di credibilità che la magistratura ha subìto agli occhi della gente, penso che l’Anm continui a mantenere un rilevante potere latamente politico, anche in forma di interdizione di riforme sgradite.
Le polemiche sul libro di Alessandro Barbano e sul dibattito tra Daniela Chinnici e Nino di Matteo portano a pensare che in Italia debba esserci per forza una unica narrazione sull’antimafia.
Convivono a tutt’oggi nel nostro Paese diverse antimafia, cioè diversi modi di concepire e praticare l’antimafia sui rispettivi piani politico, mediatico e giudiziario. Semplificando al massimo, anche per esigenze di sintesi, esiste una antimafia che definirei dogmatico-sacrale, che in nome di Falcone e Borsellino, impropriamente elevati a divinità tutelari, respinge come turbatio sacrorum ogni possibile critica ai processi gestiti dai magistrati delle generazioni successive che, a ragione o a torto, fungerebbero da loro eredi, come nel caso delle fondatissime critiche rivolte peraltro non solo da me all’emblematico processo Trattativa.
Qual è l’altra antimafia?
Quella che proporrei di definire laica, che antepone i fatti alle ipotesi, i ragionamenti in diritto e le verifiche probatorie ai dogmi, i principi costituzionali del garantismo penale al repressivismo più spinto confinante con l’abuso giudiziario. Dal canto suo una parte del sistema mediatico, in particolare quella di orientamento antimafioso più radicale, tende strumentalmente ad esasperare la suddetta contrapposizione polarizzata, soggiacendo persino alla tentazione di rappresentare come ideologicamente filo-mafiosi gli esponenti dell’antimafia cosiddetta laica. Emblematica in questo senso la recentissima polemica sollevata con toni scandalistici da Repubblica a proposito della professoressa palermitana di giurisprudenza Daniela Chinnici, rea di avere nella sostanza riproposto, sia pure con espressioni poco felici per il loro estremismo, le stesse critiche che i più qualificati studiosi di diritto processuale rivolgono ai maxi processi. E che il maxi processo presenti diverse criticità è una verità che non sfuggiva neanche a Giovanni Falcone, come emerge da diversi suoi scritti tecnici pubblicati nel decennio 1982-1992. Concluderei dunque: tanto rumore per nulla. Un piccolo scandalo artificioso creato da un tipo di giornalismo che, anziché guardare alla sostanza dei problemi realmente sul tappeto, preferisce insistere nell’alimentare una improduttiva contrapposizione tra una presunta antimafia vera e una presunta antimafia fittizia. Infine rilevo che, al di là di qualche eccesso polemico e di qualche imprecisione, anche la recente critica di Alessandro Barbano delle misure di prevenzione pone l’accento su criticità reali. Per cui, anziché demonizzarlo, questo libro andrebbe valorizzato nelle parti in cui prospetta problemi reali. Ancora una volta evitando il facile e dannoso gioco della contrapposizione tra antimafiosi doc e antimafiosi apparenti.