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Dio solo sa quanto stimi Angelo Panebianco, ma questa volta, scrivendo sul Corriere della Sera dei pericoli che avverte per un eventuale ritorno al sistema elettorale proporzionale, mi ha un po’ fatto saltare la mosca al naso. Anche se questa non è stagione di mosche.
Del sistema proporzionale si sono dette peste e corna, lo so bene. Si imboccò con entusiasmo nel 1993 la strada del maggioritario, grazie al referendum promosso dai radicali di Marco Pannella e da Mariotto Segni, nella convinzione che si sarebbe finalmente garantita la cosiddetta governabilità del Paese, riducendo il numero dei partiti e la loro volubilità. Tutto si sarebbe messo a posto ricorrendo ai collegi uninominali e costringendo le forze politiche a fare le loro alleanze prima del voto, non dopo, in modo da non sorprendere o, ancor peggio, imbrogliare gli elettori.
Sappiamo bene com’è finita. Anziché diminuire, i partiti sono aumentati, come hanno appena dimostrato le ultime consultazioni per la crisi di governo al Quirinale, dove sono sfilati davanti al pazientissimo presidente della Repubblica, peraltro autore della legge di passaggio da un sistema all’altro, tanto da darle il nome latinizzato di Mattarellum, i rappresentanti di ben 23 sigle di partiti o movimenti. Qualcuno ne ha addirittura contate 24, tante sono e tanto difficile è distinguerle: sigle tutte presenti in qualche modo in Parlamento, con gruppi proprio o con particelle dei gruppi misti. Che sono diventati un po’ degli insaccati.
La cosiddetta governabilità, pur al netto dell’alternanza fra centrodestra e centrosinistra sperimentata almeno sino al 2008, è smentita dai numeri. Quattordici governi in 23 anni, da quello di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, subito dopo il referendum elettorale, a quello in carica di Paolo Gentiloni Silverj, non sono pochi. E non lo sono neppure gli otto presidenti del Consiglio succedutisi nello stesso arco di tempo, chi ballando una sola estate e chi di più. Oltre ai già ricordati Ciampi e Gentiloni si sono infatti alternati a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi, Lamberto Dini, Romano Prodi, Giuliano Amato, Enrico Letta e Matteo Renzi.
Anche con le formule di governo non abbiamo scherzato. Si sono alternati sì il centrodestra e il centrosinistra, ma sono comparsi anche due governi tecnici - quelli di Dini e di Monti - e tre governi né di centrodestra né di centrosinistra ma di più o meno larghe intese, come vengono chiamate quelle spurie perché diverse dalle posizioni assunte dai rispettivi partiti prima delle elezioni.
Il bilancio, francamente, non mi sembra proprio esaltante. Se la vogliamo chiudere nel 1993, col referendum elettorale di Pannella e di Segni, la tanto bistrattata e lunga Prima Repubblica partorì, per sommi capi, in 47 anni quattro formule di governo: solidarietà o unità nazionale, centrismo, centrosinistra e pentapartito, che fu poi la somma del centrismo e del centrosinistra, con socialisti e liberali insieme alla Dc e agli altri cosiddetti partiti laici.
Pure le alleanze, che prendevano il nome delle formule, o viceversa, non furono tutte fatte alle spalle degli elettori, come si cerca di sostenere da parte dei fanatici del sistema maggioritario barando con la realtà.
Finita la prima emergenza post- bellica dell’unità nazionale col famoso viaggio di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti e la conseguente rottura della Dc con i comunisti e i socialisti, il centrismo sperimentato per meno di un anno uscì confermato dalle urne del 1948. Per passare al centrosinistra la Dc di Aldo Moro passò prima per il congresso del 1962 e poi per le elezioni del 1963: anno in cui nessun elettore democristiano o socialista fu preso in giro, sapendo l’uno e l’altro che i rispettivi partiti si erano proposti di fare maggioranza insieme.
Superata la nuova emergenza terroristica ed economica del 1976- 78, dopo un turno elettorale che diede risultati infruttuosi e paralizzanti, come sarebbero state quelle del 2013 per l’irruzione dei grillini sulla scena politica, gli elettori democristiani, socialisti, socialdemocratici, liberali e repubblicani andarono alle urne nel 1979 sapendo bene che i loro rispettivi cinque partiti erano destinati a governare insieme. E insieme rimasero dopo le elezioni del 1983, del 1987 e persino del 1992: l’anno orribile dell’esplosione di Tangentopoli.
Ma tornare al sistema proporzionale, per il quale a spendersi di più in questi giorni è Silvio Berlusconi, ribattezzato perciò “Rieccolo”, novello Fanfani di conio montanelliano, dal compiaciuto ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, significa per lo sconsolato, se non scandalizzato Panebianco, rimettere l’orologio indietro di una trentina d’anni. E per giunta, sempre secondo Panebianco, in uno scenario politico e sociale assai cambiato, in assenza dei vecchi e forti partiti ideologizzati e in presenza di tanti altri tutti più o meno deboli e alquanto confusi, a cominciare da quello più nuovo, delle 5 Stelle, che schifa anche il nome di partito preferendosi chiamare movimento.
È vero, per carità: lo scenario partitico è cambiato, eccome. Proprio i grillini, nonostante il penoso spettacolo che stanno dando in Campidoglio e le liti persino familistiche che li distingue, contendono il primato ad un partito come il Pd, che non è solo la somma o l’” amalgama mal riuscito”, come preferisce chiamarlo Massimo D’Alema, di due partiti che erano trent’anni fa alternativi fra loro, cioè la Dc e il Pci. È anche, o soprattutto, la somma e l’incrocio delle loro correnti, a contare e distinguere le quali viene quanto meno il capogiro. Eppure è con questi partiti, non con altri, caro Panebianco, che si debbono scomporre e comporre come diceva Aldo Moro - gli equilibri politici per governare il Paese, dati gli inconvenienti dei tecnici, che non ci siamo risparmiati di provare. E con questi partiti si sta rivelando problematico, se non impossibile, tornare al Mattarellum pur riproposto da Renzi dopo la batosta referendaria del 4 dicembre. E se questo sarà infine certificato dal Parlamento nei tempi lunghi che sono stati appena adottati, per aspettare di vedere che cosa rimarrà tra la fine di gennaio e febbraio della legge elettorale della Camera chiamata Italicum dopo il lavaggio o la revisione nell’officina della Corte Costituzionale, bisognerà pur decidersi a riparlare di proporzionale. Che Panebianco ritiene accettabile all’improbabile condizione, in questo Parlamento affollato di siglette, che si stabilisca una cosiddetta soglia di accesso alto, che eliminerebbe i piccoli partiti automaticamente dalla scena. Ma quale alternativa ci sarebbe neppure lui mi sembra in grado di dire.
Ad aggravare le preoccupazioni e il pessimismo del politologo emiliano c’è la convinzione che il sistema proporzionale si porterà appresso anche quello delle preferenze, da lui considerate un virus che infetta le elezioni, al pari di Raffaele Marra per i grillini nella rappresentazione fattane, già prima di saperlo in prigione, dall’onorevole Roberta Lombardi. Le preferenze, secondo Panebianco, portano dritto dritto al cosiddetto voto di scambio, per cui i candidati, oltre a scannarsi fra loro all’interno di una stessa lista, dovrebbero provvedere a munirsi subito di un buon avvocato per difendersi dalle inevitabili accuse della Procura di turno o del posto. In effetti, di stranezze da parte delle Procure nel perseguire il reato di voto di scambio se ne sono avute tantissime. È in corso l’indagine sul governatore della Campania Vincenzo De Luca, sospettato di induzione al voto di scambio per avere esortato gli amici sindaci a offrire fritti di pesce e gite in barca, in questa stagione poi, ai loro elettori per convincerli a votare al recente referendum costituzionale. E grazie a Dio, vi è stato a Napoli un gip che si è rifiutato di correre dietro a un pm che gli indicava come prove di corruzione un po’ di cappuccini e caffè offerti non so francamente da chi a chi.
Ma negare il voto di preferenza per paura che diventi voto di scambio, o per impedire che il solito pubblico ministero lo prenda per tale, mi sembra francamente eccessivo. Va bene che questa ormai è diventata una “società giudiziaria”, come va dicendo un esperto del calibro di Luciano Violante, ma qui si sta davvero esagerando. Oltre a lasciare scrivere le leggi elettorali alla Corte Costituzionale, qui si vorrebbe che fossero i pubblici ministeri a decidere chi, quando e come dobbiamo votare. Per quello che vale la mia esperienza di elettore, ritengo comune a tanti altri, anche a costo di essere tutti definiti “ingenui” dal buon Panebianco, che tali ha scritto di ritenere i nostalgici del sistema proporzionale, in una sessantina d’anni di frequentazione delle urne non mi sono mai venduto un voto di preferenza, sino a quando me lo hanno lasciato a disposizione. Sono altresì contento che chi usava venderselo abbia continuato a metterlo sul mercato come voto di lista, di collegio uninominale, referendario e quant’altro.