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Ho letto attentamente tutto (o quasi) quel che è stato scritto e/o dichiarato in queste ore sul caso Lucano. Ho avvertito la difficoltà e/o il disagio perfino dei magistrati che l’hanno giudicato e condannato a una pena che viene percepita da grandissima parte delle persone normali (ed è) una barbarie. Mi ha intenerito l’augurio e la speranza, di uno dei magistrati che l’ha condannato e ora auspica che i suoi successori, nel seguito processuale della vicenda, ridimensionino il tempo che Lucano dovrà marcire in carcere per aver (il presuntuoso!) cercato di dare una mano e tirar fuori dalla disperazione esseri umani suoi simili. Ed ho anche cercato di capire i meccanismi che scattano, che sono già scattati, dopo la lettura solenne della condanna. La prospettiva è drammatica e va affrontata con decisioni adeguate che non sono semplici e non sono prive di dolore. Intanto, Lucano deve tener conto che in nessun caso entrerà in Consiglio regionale perché, anche se eletto da una valanga di voti, la legge Severino glielo impedisce. Non potrà alzarsi dal suo banco e parlare da lì alla coscienza dei calabresi e del paese per raccontare quel che voleva fare e quel che ha fatto. Non potrà far pesare neanche un grammo le difficoltà, esplicite perfino in una parte della magistratura ad accettare la sua sentenza. Né alcuno terrà conto della testimonianza dell’ex prefetto Mario Morcone, capo di gabinetto del Viminale nel tempo in cui si svolsero i fatti, che due giorni fa sulla Stampa ha testimoniato: “Io l’ho conosciuto bene e sono convinto che non s’è messo un soldo in tasca”. Secondo, tenendo conto che se Lucano si opporrà alla sentenza andando all’Appello e poi in Cassazione, dopo un tempo lunghissimo di anni che intanto avrà spezzato la sua vita e il ricordo di lui e delle sue opere, riuscirà al massimo ad avere una riduzione degli anni di carcere: diciamo da 13 a 7 o a 6, forse addirittura a 5 o 4 anni. E magari l’accusa, invece del milione di euro di risarcimento a cui l’ha condannato, si accontenterà “soltanto” della metà. Insomma, Lucano non uscirà dalla trappola in cui è stato ficcato. E la trappola non è la sproporzione della condanna ma la cancellazione umana, culturale e ideale di tutte le scelte fatte da Lucano. Non s’illuda: nessuno cercherà di capire perché mai due diverse ispezioni delle stesse autorità, a pochissima distanza una dall’altra, l’hanno descritto una volta come un eroe che ha risolto problemi irrisolvibili e l’altra come un imbroglione. Il nocciolo del caso Lucano è di un’evidenza terribile e disarmante: non esiste una soluzione giudiziaria al suo caso. La concretezza dei meccanismi giudiziari, le culture che informano il mondo della giustizia italiana, le furbizie che attraversano il mondo delle istituzioni, impediscono che Lucano benefici e sia titolare di una giustizia reale. Ed allora? Allora serve la mossa del cavallo. Serve, servirebbe che Lucano si facesse il suo fagotto e si recasse al carcere più vicino per farsi imprigionare per i 13 e rotti anni decisi dal meccanismo della giustizia. Servirebbe la rinuncia dell’appassionata difesa del professor Pisapia, uno dei più prestigiosi avvocati italiani, che lo ha difeso con passione ed è pronto a continuare ad aiutarlo.Si consegni alla galera Mimmo Lucano. Accetti la condanna senza reagire. E il giorno dopo consegni la sua storia e la sua trasparenza ai livelli più alti della coscienza e della giustizia del paese, che sono ben difesi e assicurati in Italia della Presidenza della Repubblica, chiedendo la grazia per le colpe (presunte) di cui viene accusato. Solo così potrà tornare a far quello che ha sempre fatto: aiutare gli altri