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Anche a distanza di quasi vent’anni dalla morte di Bettino Craxi avverto una certa difficoltà umana a contestare qualcosa che Claudio Martelli gli attribuisce o rimprovera rievocando la loro collaborazione politica, come ha appena fatto in una lunga ed anche toccante intervista a Walter Veltroni sul Corriere della Sera. La difficoltà nasce dalla conoscenza personale che ho avuto della particolarità del loro rapporto. Che era simile per certi versi a quello che il leader socialista aveva con Silvio Berlusconi.
Dell’uno o dell’altro capitava spesso a Bettino di lamentarsi confidenzialmente per cose o affari piccoli e grandi, sentendosi un po’ strattonato da loro. Ma se, magari invogliato da questi suoi sfoghi personali, prendevi anche tu qualche volta l’iniziativa di criticarli per una qualsiasi ragione, anche estranea ai loro rapporti con lui, Bettino si rabbuiava e, spiazzandoti, li difendeva come se avessi toccato un suo familiare.
Persino nella torrida primavera del 1992, dopo le ultime elezioni della cosiddetta prima Repubblica, quando Marco Pannella diffuse la voce di un curiosa udienza al Quirinale dei ministri dimissionari dell’Interno e della Giustizia, il socialista Martelli, appunto, in cui il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, allarmato dagli sviluppi delle indagini giudiziarie milanesi su Tangentopoli, si mostrò tentato di mandarli insieme a Palazzo Chigi uno come titolare e l’altro come vice, al posto del leader socialista, che vi aspirava con l’appoggio del segretario della Dc Arnaldo Forlani; persino allora, e in quel frangente, dicevo, Bettino prese con me le difese di Claudio dai sospetti di slealtà nati dalle indiscrezioni pannelliane.
Poi - è vero - si disse che nella formazione del governo, dopo l’incarico di presidente del Consiglio affidato su designazione dello stesso Craxi a Giuliano Amato, fosse caduto su Martelli un imbarazzante veto di Bettino per la sua conferma a Guardasigilli, nonostante il ministro uscente fosse stato da Craxi incluso nella terna socialista, con Amato e Gianni De Michelis “in ordine non solo alfabetico”, proposta al Capo dello Stato al termine delle consultazioni per la soluzione della crisi. Ma Martelli fu confermato. E se lo sentì garantire dallo stesso Craxi al telefono.
Ora vengo a sapere da Martelli, nella già citata intervista a Veltroni, che nel 1987 egli si vide rifiutare da Craxi, presidente del Consiglio ormai dimissionario per la fregola della “staffetta” a Palazzo Chigi rivendicata dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, una più che ragionevole e onorevole soluzione della crisi a favore di Giulio Andreotti. Che peraltro era in quel momento il suo ministro degli Esteri, con reciproca stima e amicizia seguite agli anni in cui Craxi sognava la “volpe” Andreotti in “pellicceria”: magari, quella situata nel piano sottostante a quello dell’ufficio dello stesso Andreotti in Piazza San Lorenzo in Lucina.
In particolare, Andreotti avrebbe garantito lo svolgimento dei referendum sulla giustizia e sul nucleare avversati da De Mita e aperto all’elezione diretta del presidente della Repubblica dopo tre tentativi eventualmente falliti in Parlamento. «Che ti frega di tenerti Andreotti per un anno» a Palazzo Chigi di fronte a queste concessioni?, ha raccontato Martelli di avere detto in quell’occasione a Craxi, peraltro seccato che lui si fosse “occupato” della crisi.
Ebbene, a questo punto debbo dire che ben altro fu il racconto di quel passaggio fattomi da Craxi, e confermato dai fatti poi avvenuti.
Andreotti fu fermato non dal no di Bettino ma dal no di De Mita, che voleva, fortissimamente voleva e ottenne insieme la fine della prima presidenza socialista del Consiglio e lo scioglimento anticipato delle Camere, il cui mandato ordinario scadeva l’anno successivo. Le elezioni furono gestite da un governo monocolore democristiano di Amintore Fanfani cui i deputati del suo partito negarono la fiducia, astenendosi, perché il presidente della Repubblica Francesco Cossiga non potesse sottrarsi al dovere di trarne le conseguenze sciogliendo le Camere. Lo ricordo per la cronaca, o per la storia con la minuscola, perché quella con la maiuscola non dovrebbe neppure contemplare una vicenda così poco ortodossa, a dir poco, sul piano istituzionale e persino etico.