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Fra lo «sciogliere l’Anm» ed il «lasciargli fare politica», Bruti Liberati sa bene che vi è uno spazio enorme, fatto di buon senso, di luoghi e di contesti adeguati, di opportunità e di toni. La questione è troppo seria e delicata perché possa essere liquidata con una sintesi tanto efficace quanto iperbolica. Nessuno vuole certamente negare ai magistrati i diritti costituzionali di manifestazione del proprio pensiero e di libertà di parola. Ma la magistratura abita un luogo troppo speciale nella Storia e nella vita delle persone (quale è quello della giustizia), e gestisce un dispositivo tanto necessario quanto terribile (quale è quello del processo penale), perché di queste peculiarità non si debba tenere conto. D’altronde vi è oramai un consenso trasversale nel ritenere che la partecipazione alle competizioni elettorali da parte di un magistrato, se non del tutto impedita, debba essere circondata da particolari cautele e restrizioni. Non si vede perché anche nella partecipazione al dibattito politico non si debbano adottare analoghi temperamenti, soprattutto da parte di chi ha la rappresentanza dell’intero corpo della Magistratura.
Non si può difatti essere autonomi, indipendenti, insindacabili e radicalmente politicizzati, ed essere e apparire al tempo stesso terzi ed imparziali. Tutti i princìpi devono essere ragionevolmente bilanciati. La prosa del presidente dell’Anm Santalucia – come annota con ironia Bruti Liberati – «non è delle più scorrevoli». Ma non perché intaccata dal «giuridichese», in quanto in quel passaggio non si parla infatti di diritto ma si sviluppa una vera e propria analisi psico- politica delle dinamiche riformatrici in corso, rappresentando l’iniziativa referendaria, che costituisce un legittimo e nobilissimo strumento democratico, come un esercizio muscolare di «radicalismo ideologizzante». L’espressione utilizzata in quell’intervento – sulla quale Bruti Liberati non si sofferma affatto – nel quale si prospetta una «ferma reazione» da parte della magistratura associata a tale iniziativa, sembra essere, quella sì, un inopportuno esercizio “muscolare”. Una «ferma reazione» si può porre in essere, infatti, solo contro una iniziativa politica illegittima, antidemocratica, contraria alla Costituzione, ma non certo contro una iniziativa che concorre allo sviluppo di una sana dialettica democratica nel Paese. Tanto più in un momento nel quale si avverte la necessità di riforme davvero radicali, di un cambiamento di paradigma che non è affatto un “abbattere paletti” che sono “presìdi costituzionali”, ma uno sforzo di modernizzazione e di adeguamento dell’ordinamento giudiziario, di superamento di una concezione davvero cetuale e ancient régime delle prerogative della magistratura.
Né si devono temere le «contrapposizioni» che costituiscono la sostanza reale di ogni matura democrazia. Che siano o meno «frontali» dipende appunto dai toni e dagli argomenti. Nessuno pensa che la magistratura debba essere messa a tacere, ma occorre che il dialogo prosegua su basi diverse, nel merito delle questioni, come correttamente auspica Bruti Liberati, non ricorrendo ancora nella discussione sulla separazione delle carriere a quei consueti topoi che eludono di fatto le domande fondamentali: non è forse proprio l’attuale ordinamento difeso dall’Anm che consente lo svilupparsi dello strapotere delle Procure? Se ne può immaginare davvero un altro che possa conferire ai pubblici ministeri una egemonia superiore rispetto a quella che è dato osservare quotidianamente nell’esercizio della professione e sui media? C’è bisogno davvero di difendere quella “cultura della giurisdizione” che impedisce ai pm di prendere il caffè con i giudici che rigettano le loro istanze? E davvero, si deve ancora paventare l’assoggettamento del pm al potere politico, quando la proposta di riforma costituzionale dell’Ucpi prevede l’istituzione ( alla portoghese) di un Csm dei pubblici ministeri? Ed infine: non tradisce forse l’attuale sistema di governo della magistratura l’inaccettabile esistenza di un clamoroso “conflitto di interessi” fra controllore e controllato? Quel conflitto immanente al nostro ordinamento giudiziario costituito dal fatto che all’interno di un Csm uni- funzionale si amministrano e si gestiscono vicendevolmente, indistintamente e promiscuamente i procedimenti disciplinari, le valutazioni e le carriere di giudici e pubblici ministeri?
Ecco, questo è il merito delle questioni di cui vorremmo sentire parlare, questi i nodi sui quali confrontarsi. Scioglierli separando le carriere non significa «abbattere vecchi steccati» che sono «presìdi costituzionali», ma dare invece attuazione alla Costituzione, instaurando una vera terzietà del giudice, sbarazzandosi solo di quella parte di ordinamento fatta di una visione ancora autoritaria, paternalistica e anti- moderna della giustizia (“sacerdotale” come la dichiarava il guardasigilli fascista Grandi, autore del nostro ordinamento giudiziario). Indipendenza ed autonomia sono valori reali nella misura in cui la magistratura mostra il proprio coraggio, in questo momento di crisi, nel sottrarsi alla stanca ripetizione di vecchi argomenti e di posizioni conservatrici, aprendosi al dialogo e al confronto, nella consapevolezza che solo ciò che non si ha il coraggio di affrontare è veramente “divisivo”.
Bruti Liberati accenna, poi, ad un altro dei quesiti referendari che riguarda direttamente il processo penale, limitandosi a rappresentare la sua preoccupazione circa il numero degli indagati nei cui confronti la custodia cautelare non potrà essere applicata. Evoca, così come aveva già fatto Piercamillo Davigo, scenari securitari di una criminalità dilagante ( contro ogni attendibile statistica), dimenticando tuttavia il numero delle ingiuste detenzioni, la qualità del danno e la quantità della spesa che esse generano ogni anno. Trascurando di ricordare il numero delle persone detenute in attesa di giudizio che genera una pressione insopportabile sulle complessive condizioni carcerarie, nonché il numero impressionante di suicidi che quella pressione a sua volta finisce col generare. Vi potrebbe essere solo una ragione per non essere d’accordo con quel quesito referendario, che mette mano a norme sulla custodia cautelare, più volte rimaneggiate, che sono già di per sé chiarissime sia nella lettera che nello spirito, concordare cioè con Michel de Montaigne il quale scriveva nei suoi Essays: “Non mi piace l’opinione di quello che pensava di frenare con la moltitudine delle leggi l’autorità dei giudici, contando loro i bocconi; non si accorgeva che c’è tanta libertà e ampiezza nell’interpretazione delle leggi quanto nella loro forma”. Ma questa è un’altra storia…