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Non vedrò il film di Marco Bellocchio, fidandomi dell’intuito di Stefano Andreotti, che ha annunciato la decisione di non voler assistere alla proiezione di un film cucito su misura del luogo comune del cinismo andreottiano. In realtà il film di Bellocchio prosegue una ricerca del regista sul ‘caso Moro’, già culminata nella precedente opera intitolata ‘Buongiorno notte’. Già nel primo film la ricostruzione storica del caso Moro era alquanto approssimativa. Ma tant’è : la licenza cinematografica è come quella poetica, e ci può stare una libera reinterpretazione fantastica delle vicende. Temo però che ‘Esterno notte’ - che completa con due lungometraggi una vera e propria trilogia morotea di Bellocchio - vada leggermente oltre la licenza poetica: dalle pellicole scaturisce una adesione quasi ideologica alla vulgata di un Andreotti cinico e indifferente alla sorte di Moro, freddo esecutore di un disegno superiore volto ad eliminare Moro dalla scena politica. Siamo quasi alle chiacchiere da bar Sport del tempo del sequestro, quando si sentivano manipolo di destra e sinistra cianciare che ‘a far fuori Moro ci hanno pensato i democristiani’. Dalla tragedia di Moro ci separano quarantaquattro anni. Vi sono stati processi, indagini, inchieste. Giace nelle biblioteche e nelle emeroteche una florida produzione giornalistica e letteraria sul tema. Più di recente vi è stata una commissione di inchiesta molto ben condotta da un politico intelligente e non prevenuto come Beppe Fioroni. Sulla genesi del caso Moro non sappiamo molto di più di quarantaquattro anni fa. La sola scelta condivisibile di Bellocchio è la titolazione evocativa della notte: il sequestro Moro fu davvero la notte della repubblica, il mistero dei misteri di una stagione repubblicana solcata ciclicamente da eventi tragici. Il senso di impotenza di fronte a tale mistero non può tuttavia giustificare l’adesione a costruzioni retoriche spacciate per verità: un film condiziona il pubblico soprattutto giovanile, ed è un peccato di superbia raccontare la morte di Moro come l’esito di una strategia lucida e cinica dei suoi compagni di partito. Certo, è stata la vulgata di un tempo di cui conserviamo memoria: Cossiga veniva presentato come servo di poteri internazionali che avevano condannato Moro a morte, e Andreotti esecutore se non correo del disegno. Ma era una vulgata, appunto, da bar Sport, senza le pretese di solennità di un evento culturale come la produzione di un film. La verità è che la Dc scelse la linea della fermezza nei confronti delle Brigate Rosse. Decise di non trattare, di non aderire agli scambi di prigionieri e di favori variamente proposti da una cospicua e variopinta costellazione di mediatori. Tutta la Dc decise di rischiare la vita di Moro, ma di non cedere alla apertura di una trattativa che avrebbe messolo Stato alla pari se non in ginocchio rispetto al terrorismo rosso. La Dc scelse lo Stato, la fermezza, declinó nell’ora più tragica il suo dna di forza garante dell’ordine costituzionale, e su questa linea ebbe anche la solidarietà del PCI. Questo è vero, ed è indubitabile che il partito democristiano mettesse in conto l’uccisione di Moro. Ma di qui a concludere che la Dc volesse la morte di Moro,o fosse indifferente al suo destino, ce ne passa. Tutti i democristiani erano consapevoli di sfidare il demonio terroristico. Molti leader democristiani misero per iscritto che - in caso di loro rapimento - non si doveva tener conto di eventuali loro appelli alla trattativa, perché contrari al giudizio che esprimevano in condizioni di serenità e di libertà. Di fronte a queste decisioni così drammatiche, non si può speculare raccontando il cinismo invece dell’eroismo dei democristiani. Quanto ad Andreotti, il cinismo accompagnava la sua leggenda. In realtà era solo un uomo molto controllato nelle emozioni, come era tipico della generazione nata tra le due guerre, e attraversata da tutte le tragedie collettive del novecento. Lo stesso mal di testa di Andreotti, malessere stabile di cui hanno raccontato generazioni di cronisti, facilmente era solo il riflesso psicosomatico della fatica di controllare il turbinio delle emozioni di una vita vissuta oltre la frontiera del rischio personale. I diari di Andreotti oggi ci restituiscono un uomo molto diverso: delicato nelle relazioni personali, attento verso amici ed avversari, sollecito maggiormente verso i deboli e coloro che erano declinato da posizioni di potere. Ma a una certa area culturale questa verità non piace. Viene preferita la maschera algida di Andreotti da offrire al grande pubblico, perché nella storia la Dc deve rimanere così, nella postura più inquietante. La verità è che certa ‘intellighenzia’ non vuol far sapere ai posteri che a uccidere Moro furono terroristi rossi, comunisti mai pentiti, marxisti- leninisti coerentemente legati alla prassi dell’eliminazione fisica dell’avversario. Possono aver avuto complici internazionali persino nella loro controparte ideologica, ma certamente gli assassini erano loro, ì terroristi rossi. Ma questo è brutto da pensare e da raccontare. Meglio nascondere tutto dietro il sorriso cinico del divo Giulio.