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Carlo Federico Grosso. «C’è una sfiducia diffusa nei confronti della giurisdizione.
L’avvocatura può, anzi deve contribuire a ripristinare, nell’opinione pubblica, un’idea appropriata del processo.
Ma lo stesso ceto forense è attraversato da difficoltà analoghe a quelle dell’intero sistema giustizia, e per questo non sarà facile che gli avvocati riescano a svolgere tale opera di pedagogia civile».
A dirlo è un grande giurista come Carlo Federico Grosso, ex vicepresidente del Csm e tra i più autorevoli processual penalisti dell’accademia nel nostro Paese. Grosso definisce «un bene che l’avvocato venga menzionato in Costituzione», e aggiunge appunto che gli stessi difensori devono essere dotati di un elevato spessore culturale per poter rassicurare i cittadini sull’affidabilità dell’ordinamento.
«Non è semplice far passare un’idea di giustizia diversa da quella, negativa, che prevale ora».
Carlo Federico Grosso è figura capace di guardare con equilibrio ai contorcimenti del sistema.
La sua caratura di giurista ha diverse ispirazioni: avvocato, segnato dall’impegno accademico ma anche da quello politico, Grosso ha avuto uno sguardo privilegiato sulla giurisdizione come “organismo vivente” anche grazie al biennio, dal ’ 96 al ’ 98, trascorso da vicepresidente del Csm.
Il suo è un punto d’osservazione distaccato anche rispetto al ruolo dell’avvocato, a cominciare dalla possibilità che il ceto forense promuova «presso l’opinione pubblica» una visione «più serena del processo, slegata da ansie di vendetta».
Tale funzione «può essere incoraggiata dal possibile riconoscimento costituzionale del difensore, ma a condizione che gli avvocati siano all’altezza di tale riconoscimento.
Se infatti», dice Grosso, «la giurisdizione non gode ora di grande fiducia presso l’opinione pubblica, gli stessi avvocati non sempre paiono all’altezza dell’attività di promozione culturale che potrebbero svolgere».
Perché si è persa fiducia nella giurisdizione, presidente Grosso?
Ci sono diverse concomitanti ragioni. Noi non possiamo sottovalutare lo sconcerto dei cittadini di fronte ai tempi inaccettabili dei processi, sia civili che penali. A volte ragioniamo come se si dia per scontata un’assuefazione al disagio.
Non è così: i cittadini ne ricavano una valutazione assai negativa. A questo aggiungo che troppe volte la giurisdizione non offre le risposte che la gente aspetta.
Si riferisce ai processi penali in cui la sanzione è assai al di sotto delle attese collettive?
Sì, di casi ce ne sono tanti. Si può citare tra i più recenti quello relativo alla strage sul viadotto nei pressi di Avellino. Ricordo anche i passaggi giudiziari cruciali della tragedia alla Thyssen Krupp.
Sono casi che le persone hanno sentito sulla loro pelle, in profondità, e qui il dato emotivo prevale sugli aspetti puramente giudiziari. Si ha l’impressione che i giudici non realizzino fino in fondo le ansie di vendetta.
L’avvocatura può farsi promotrice culturale di una visione più equilibrata della giurisdizione?
Deve assolutamente svolgere tale ruolo. Deve in qualche modo educare la gente ad accettare la giustizia così come è praticata dal giudice e non a inseguire degli obiettivi personali di giustizia individuale.
Il riconoscimento costituzionale dell’avvocato può favorire la sua opera “pedagogica”?
È un bene che l’avvocato venga menzionato in Costituzione, come soggetto che deve assicurare la difesa tecnica. Anche se il principio è già presente nell’ordinamento, è opportuno richiamarlo a livello costituzionale.
È un’ulteriore occasione per proporre un’idea equilibrata di giurisdizione. Mi riferisco a distorsioni che banno conosciuto il loro grado più estremo in processi come quelli alle Brigate rosse.
Vicende in cui l’avvocatura ha difeso i principi a costo della vita, com’è stato per Fulvio Croce.
Di fronte al rifiuto della difesa tecnica e alla pretesa di difendersi personalmente, fu eroicamente richiamata l’importanza dell’assistenza del difensore come mediatore dei diritti, di conoscenze tecniche che l’imputato non può possedere.
Assicurare la difesa migliore possibile è affermazione del principio di uguaglianza e, appunto, veicolo di un’idea appropriata del processo.
Ora, lei di fatto mi chiede se l’avvocatura in generale può essere non solo difensore dell’interesse specifico del singolo, ma addirittura della giurisdizione nel suo complesso.
Certo.
Ecco: ribadisco che l’avvocato può e deve promuovere una maggiore attenzione e consapevolezza di quanto accade nei Tribunali. Dico che anche che oggi l’effettivo espletamento di tale funzione non mi pare facile.
Perché?
Già la sua funzione tecnica induce naturalmente il difensore ad affrontare il processo in una prospettiva individualistica.
Non è facile staccarsi con lo sguardo e assumere anche la difesa del problema della giustizia complessivamente intesa. L’avvocato colto e sensibile è in grado di svolgere tale compito.
Servono vocazione e spessore straordinari?
Attenzione: quanto diciamo attiene al ruolo dell’avvocato come parte essenziale della giustizia, protagonista al pari delle altre parti.
Ma non possiamo ignorare l’enorme incremento del numero di abilitati alla professione, che si è accompagnato a un abbassamento del livello culturale medio degli avvocati.
Molti non sono attrezzati a svolgere quel ruolo civile, ma solo a lottare gomito a gomito con gli altri.
E questo richiede una particolare vigilanza degli organismi istituzionali, innanzitutto il Consiglio nazionale forense, sulla deontologia?
La deontologia è la chiave di tutto: se c’è rigore nel farla osservare il resto viene da sé. La sola risposta alle disfunzioni provocate dall’alto numero di professionisti è una maggiore vigilanza sulla deontologia. E in generale è la giurisdizione che deve essere all’altezza delle aspettative diffuse, se si vuole che sia più matura l’opinione pubblica.