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Riace
Attenti cari “compagni” e carissimi intellettuali di “Sinistra”, non mettiamoci la coscienza a posto limitandoci ad esprimere la giusta solidarietà a Mimmo Lucano. Così facendo c’è il rischio di far male a lui e di essere profondamente ingiusti con tantissimi altri. Si rischia inoltre di mettere in discussione il principio di uguaglianza come valore fondamentale della Sinistra e di provare il sottile piacere ad auto-confinarci in una specie di accademia per spiriti eletti dove hanno accesso solo i "colti", i "puri" e gli "onesti". Ed al diavolo chi resta fuori dell’eletta schiera perché si tratta di “sospetti”, “collusi”, “mafiosi”, “zingari” o al massimo plebe senza nome. Questa strada non è solo sbagliata, ma porta dritti alla sconfitta. Ma andiamo con ordine: personalmente apprezzo, e molto, chi, in questi giorni, ha partecipato ai presidi democratici di solidarietà ai condannati di Locri iniziando dallo sconosciuto (e condannato) Ibrahim che, nella “banda” di Riace, aveva il delicato compito di custodire gli asinelli. Ma nel momento in cui si scende in piazza (o comunque si esprime dissenso) contro una sentenza lo si fa perché la si ritiene ingiusta. In questo caso ingiusta perché “politica”. Qui, il passaggio diventa arduo perché è proprio la “sinistra” in tutte le sue colorazioni, che da oltre trent'anni fiancheggia - in posizione di assoluta subalternità (ed a prescindere) - la magistratura più aggressiva, ed oggi dovrebbe spiegare perché di colpo una sentenza diventa “preoccupante”, “aberrante”, “abnorme”, “politica”. A questo punto la via diventa stretta e non ci sono scorciatoie. Bisogna necessariamente passare da una sincera autocritica e prender atto che, in Calabria, lo Stato di diritto è stato distrutto. Quindi, perché sorprendersi del caso Lucano? E perché mai sorprendersi di una condanna che, ai miei occhi, sembra follia, dopo aver assistito inermi ad una strage di innocenti (certificata dalle Corti di appello) finalizzata alla colonizzazione d’una Regione? Perché non far sentire la propria voce in Parlamento e nel paese per centinaia e centinaia innocenti tenuti per anni nelle patrie galere? Il prefetto che manda gli ispettori a Riace e che al momento di andare via da Reggio scrive un libro, “prefetto in terra di ‘ndrangheta”, sa che l’immagine di Riace è incompatibile con quella della “Calabria criminale” costruita a suon di retate e processi sommari. Incompatibile come già lo era stata la missione apostolica del vescovo Carlo Maria Bregantini, allontanato per non essere arrestato. La sentenza su Riace si inquadra in un tale contesto, ma è politica per altro. Il tribunale di Locri è a cento metri dell’ospedale, centro della disastrata sanità della Locride. Se guardassimo indietro nella storia della sanità e dell’ospedale in questa parte della Calabria, troveremmo una voragine di molto superiore ad un miliardo di euro. Ora, premettendo che per convinzione e per principio sono contrario alla galera (se non in casi estremi), sono certo che qualora fossero state fatte indagini - soprattutto dopo l’omicidio Fortugno -, sul banco degli imputati avremmo trovato il fior fiore della “borghesia” calabrese. Mafiosa e non. Una classe sociale che - in Calabria - non si processa e non si fa processare. Ufficiali di collegamento tra un popolo sconfitto ed il “Potere” che comanda in Italia ed ha ridotto la Calabria in queste condizioni. Infine, ma è la cosa più grave, questa classe sociale esercita l’egemonia (che la Sinistra ha perso) sul popolo calabrese e quindi ne conduce i giochi. Nella magistratura e fuori di essa. Sono convinto che in Italia ed in Calabria vi siano tanti bravi magistrati, ma la magistratura non è un’isola in cui operano cavalieri della Valle solitaria alla ricerca della verità. La magistratura è parte dello Stato, di questo Stato che in Calabria assicura impunità e determina condanne. Parte del potere ed in quanto tale generalmente è sensibile a quanto matura nella società. A Riace, secondo gli inquirenti mandati dal prefetto, si sono spesi negli anni cinque milioni di euro per dare sollievo a migliaia tra gli ultimi della terra. Forzando le leggi, (ribadisco : forzando le leggi) s’è fatto qualcosa in più della mera “accoglienza”, creando un paese-albergo - un frantoio solidale, le scuole, le botteghe artigianali, la fattoria didattica e , soprattutto, indicando alla Calabria un altro orizzonte. Riace (e non solo) è diventata lo specchio positivo della Calabria nella stessa misura in cui l’ospedale e la sanità sono diventati negli anni (salvaguardando la dignità di chi vi lavora) sinonimo di tanta ma tanta sofferenza, di sprechi, di incompetenze, di imbrogli e di vergogna. A “Riace” non c’era alcuna borghesia da processare, nessun "potente" da indagare perciò le indagini dovevano esser condotte con un rigore eccezionale. Eppure alcuni imputati e condannati sono persone come Lem Lem, di nazionalità etiope, arrivata su una barca dopo aver perso la sorella morta durante il viaggio e dopo aver subito inenarrabili violenze in Libia. Abeba, Tigrigna, che vive lavorando alla giornata; Cosimina (8 anni e nove mesi di carcere) una precaria che rispondeva al telefono ed oggi è senza lavoro e senza reddito. Mi fermo al terribile Keita, muratore saltuario. Se ne avessi la possibilità chiederei al ministro della Giustizia e al Csm, e solo a fini conoscitivi, una commissione di studio per verificare le condizioni di vita degli imputati di Riace e così si capirebbe, una volta in più, che il processo è solo politico. Si processano gli “ultimi” per garantire la sostanziale impunità ai “Primi”, ai responsabili dello sfascio della Calabria. In questo senso la sentenza di Locri è politica, a meno che per politica non si intenda il teatro dell'assurdo allestito in occasione delle recenti elezioni regionali.