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Padre Camillo Ripamonti è il presidente del Centro Astalli, l’ufficio nazionale italiano dei gesuiti per il servizio ai rifugiati. Mi riceve in una sala conferenze ricavata da un sotterraneo in via del Collegio Romano. «Ci sono quattro temi principali riguardo all’immigrazione di cui tenere conto in questi tempi», dice. «Si tratta dei cambiamenti occorsi alle modalità di accoglienza, del ridimensionamento, quasi la cancellazione, dei programmi di integrazione, dell’abolizione della protezione umanitaria e, più importante ancora, della trasformazione che ha subito in Italia la percezione diffusa degli immigrati e di chi li aiuta». Chiedo di iniziare precisando i primi punti.
«L’accoglienza riguarda il soddisfacimento dei bisogni primari dei richiedenti asilo. L’integrazione è qualcosa di molto più complesso, consiste nel processo di inserimento delle persone che arrivano nel nuovo paese nel quale adesso si trovano. Si tratta di un percorso bidirezionale. La pura e semplice assimilazione risulta impossibile, in una società dinamica, in trasformazione, nella quale un’identità stabile non esiste. Purtroppo manca l’idea che chi arriva arricchisce la nostra società, non la rende più povera, e non solo con la sua forza lavoro, anche con il bagaglio culturale che possiede».
La situazione sta cambiando? In che direzione? «Era in corso un processo positivo. Il Ministero degli Interni sosteneva un piano di integrazione basato sui centri SPRAR, realtà piccole e diffuse quanto possibile, sviluppate con il coinvolgimento delle amministrazioni locali e comprensivi di strumenti come corsi di italiano, percorsi di inserimento, creazione di servizi integrati, capaci di operare a favore sia dei locali che degli immigrati. Adesso li hanno sostituiti i SIPROIMI, che sono molto meno collegati al territorio, non prevedono alcuna forma di integrazione, e dai quali sono esclusi i richiedenti asilo».
Domando chiarimenti rispetto a questo cambiamento e alle qualifiche attribuite agli immigrati. Padre Ripamonti fa un sorriso rassegnato e mi consegna un depliant che ha portato con sé. Leggo, nell’apposito Dizionario, che esistono: rifugiati, sfollati interni, migranti forzati, richiedenti asilo, persone che godono della protezione sussidiaria, minori stranieri non accompagnati e infine migranti irregolari. Nella pagina precedente c’è scritto che secondo l’Onu ci sono oggi circa 70 milioni di persone costrette alla fuga dalle loro case e di queste 25 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni. «Nel 2019 in Italia sono arrivate poche persone, meno di 30.000.
Il problema riguarda principalmente gli immigrati già presenti. Non i circa 5 milioni di regolari, che lavorano quasi tutti e hanno famiglia, ma i 500/ 700 mila irregolari, per i quali la situazione si è fatta più complessa negli ultimi mesi, da quando chi non ha diritto all’asilo non può più ottenere la protezione umanitaria». Cosa succede a chi la aveva? «Rischiano di precipitare nella marginalità. I più inseriti riescono ad avere un rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Chi non si trova nelle condizioni di ottenerlo, per esempio perché non lavora al momento della scadenza, deve accontentarsi di un permesso di soggiorno speciale, a rischio costante di non vederselo rinnovare, e che comunque non può essere trasformato in un permesso per motivi di lavoro. Anche se consente di lavorare. Una situazione complicata, di grande insicurezza, ma non la peggiore».
Chi si trova sul gradino più basso? «Chi ha ricevuto un foglio di via, che gli intima di lasciare il Paese entro un mese». E se non lo fa? «Se viene fermato dalla polizia rischia di finire in un Cpr, Centro Per il Rimpatrio, dove con le ultime leggi e possibile che venga trattenuto per 180 giorni. Poi, se non si è riusciti a rimpatriarlo, e i rimpatri effettuati sono pochissimi dato il costo elevato e la difficoltà di ottenere l’assenso del paese di rientro, viene rimesso in libertà e rischia di ricevere un nuovo foglio di via, e poi un altro e ancora».
Non è un sistema che funzioni... «No. Assolutamente. Il problema sta nel fatto che la legge italiana sull’immigrazione ha vent’anni, è ancora la Bossi- Fini, anche se modificata. Andrebbe riscritta completamente, tenendo conto che col tempo il fenomeno è cambiato, è divenuto globale. Occorrono politiche di investimenti nei paesi di origine, la creazione di canali attraverso i quali far transitare quote prestabilite di persone, togliendole dalle mani dei trafficanti.
L’ultimo decreto che stabiliva cifre di flussi di accoglienza è di quasi dieci anni fa, con Maroni Ministro degli Interni. Insieme ad altre associazioni abbiamo presentato una proposta di legge popolare, si chiama Ero Straniero, che porterebbe alla messa in atto di un modo efficace e responsabile di governare il fenomeno, ma ci sono pochissime speranze di approvazione». Perché? «Sui migranti si giocano consenso e assetti politici. È diventato difficile affrontare la questione in modo “ragionevole”, senza ideologie né preconcetti, cercando di governarlo nella sua complessità. Nessuno parla più nemmeno dello ius soli, o culturae…». Padre Ripamonti abbassa gli occhi e scuote la testa. Poi la rialza e mi fissa con sguardo deciso. Sorride perfino.