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«Aldo Moro fu l’unico cittadino italiano per il quale lo Stato non trattò la liberazione. Noi socialisti fummo gli unici a mettere in campo un tentativo concreto per cercare di salvarlo e lo Stato ha molte colpe in questa tragedia». Margherita Boniver, presidente della fondazione Craxi e membro del Psi all’epoca del sequestro Moro, ricostruisce i lunghi giorni del sequestro e l’affanno di Bettino Craxi nel cercare una strada di dialogo tra Istituzioni e brigatisti.
Lei parlò con Bettino Craxi durante il sequestro Moro?
Sì, perchè Craxi mi chiese di coinvolgere Amnesty International nel disperato tentativo di salvare la vita di Moro. All’epoca, infatti, ero presidente della sezione italiana dell’associazione, che avevo costituito nel 1973. Per farlo, mi recai più volte a Londra per parlare con l’allora segretario generale, Martin Ennals: Amnesty International si occupava di “prigionieri di coscienza” e prigionieri politici ma la sezione italiana per Statuto non avrebbe potuto occuparsi di casi italiani. Questa era la regola, per mantenere integra l’apartiticità e l’imparzialità di un’associazione molto rigorosa e molto attiva. Ennals non solo conosceva Moro, ma valutò la situazione talmente drammatica da decidere di diramare un fortissimo appello rivolto ai terroristi, affinchè liberassero senza condizioni e incolume lo statista.
Solo il segretario socialista le chiese di operare questa intermediazione?
Non solo. Su questo argomento venni contattata diverse volte anche da Amintore Fanfani, l’unico democristiano che si mosse con determinazione per la liberazione, seppur tardivamente.
Ricorda il clima politico in Italia di quei 55 giorni?
Furono giorni terribili e di contrapposizioni feroci. Da una parte c’era il cosiddetto “partito della fermezza” capitanato dal Pci, da buona parte della Dc, profondamente lacerata al suo interno e succube oltre che protagonista di quell’immane tragedia, nonchè dai giornali, con in prima linea la Repubblica di Eugenio Scalfari, che tutti i giorni tuonava contro ogni ipotesi, anche la più legale, di cedimento nei confronti dei terroristi. Dall’altra c’eravamo noi socialisti, insieme agli altri partiti laici minori: Bettino Craxi aveva costruito tutta un’azione politica per la liberazione di Moro, nominando un comitato di celebri costituzionalisti e avvocati, presie- duto dal professor Giuliano Vassalli, leggendario giurista che aveva organizzato la fuga di Sandro Pertini dal carcere nel 1944.
Quanto era concreta l’ipotesi elaborata da questo comitato?
Il comitato di Craxi aveva imbastito un tentativo di scambio di prigionieri coi terroristi, individuando anche i possibili detenuti da liberare. Si trattava di due brigatisti, entrambi mai coinvolti in fatti di sangue e uno dei quali era gravemente malato. Questa era la base di un ipotetico scambio, ma quella che oggi si chiamerebbe trattativa divenne impossibile a causa di un clima infame, costruito in particolare intorno al mio partito. Fummo definiti i capifila del cedimento e traditori della ragion di Stato, con attacchi feroci da parte della stampa, quasi tutta allineata sulla linea della fermezza di Scalfari. Al contrario, io credo che l’azione purtroppo inutile che fu coraggiosamente costruita dal Psi di Bettino Craxi rappresenti una delle pagine più belle della tradizione del Partito Socialista.
Il Psi era tutto schierato con Craxi?
Sì, il partito era unanime dietro i tentativi del segretario, che visse quei giorni praticamente chiuso in una sorta di bunker, circondato dai giuristi, alla ricerca frenetica di una via d’uscita per lo statista democristiano. Dopo l’omicidio, Craxi fu l’unico politico ad essere invitato ai funerali privati di Moro voluti dalla famiglia, che era stata fortemente critica con lo Stato e la Dc. Ricordo che la vedova Moro gli fece anche dono della famosa auto blindata che era stata tardivamente consegnata alla famiglia giorni dopo il sequestro di via Fani.
A distanza di anni, lei crede che Moro si sarebbe potuto salvare?
Il dubbio rimane, sicuramente l’azione svolta da Craxi e dal Psi aveva costruito un’ipotesi di scambio che avrebbe forse potuto risolvere la situazione. Quarant’anni dopo la sua morte, ciò che risulta incredibile è che Moro fu l’unico cittadino italiano sacrificato senza trattative. In anni successivi, sono innumerevoli i casi di cittadini italiani sequestrati da terroristi in molte parti del mondo per i quali i governi italiani hanno immediatamente aperto il fronte della trattativa coi terroristi, per salvare la vita dei loro concittadini sequestrati. Furono trattative più o meno segrete o palesi e io stessa, decenni dopo il 1978, ho partecipato con funzioni diplomatiche e politiche a missioni di liberazione di ostaggi che avevano alla base una robusta trattativa da parte degli organi dello Stato.
Quella del 1978, però, era un’Italia diversa?
Certamente, e anche di un’interpretazione diversa di ciò che erano le Br, in particolare da parte del Pci: una frangia estremista e inaccettabile che nasceva alla sua sinistra e che doveva essere assolutamente sgominata.
Lei crede che per la morte di Moro anche le istituzioni di allora siano in parte colpevoli?
C’è stata sicuramente responsabilità da parte dello Stato. Penso ai pasticci nelle ricerche, ai depistaggi e ai tanti misteri, ma ricordo soprattutto le incertezze eclatanti nell’azione dei nostri servizi e delle forze di polizia. C’è stato un evidente fallimento investigativo, ma la responsabilità ricade anche su quel fronte della fermezza, assolutamente incomprensibile nell’ottica di oggi.
Cosa resta, oggi, di questa pagina così atroce della nostra storia recente?
La Dc dell’epoca riuscì a chiudere quella stagione del terrore senza promulgare leggi di emergenza, che avrebbero potuto ledere i diritti costituzionali dei cittadini in nome dell’antiterrorismo. Ci volle un decennio, ma fu una lezione bella seppur tardiva da parte del nostro Paese.