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Federico Caffè sparì nel nulla il 15 aprile, esattamente trent’anni fa. Economista e docente universitario, fu uno dei principali diffusori della dottrina keynesiana ma anche un intellettuale eclettico e commentatore attento dell’attualità, prestando la sua penna ai principali quotidiani italiani. La sua scomparsa rimane tutt’ora avvolta nel mistero: improvvisa, nessun biglietto, senza una ragione apparente. Uscì all’alba, dalla sua casa di Roma in via Cadlolo, lasciando sul comodino gli occhiali, l’orologio e i documenti. Poi più nulla. Uno dei suoi allievi più stretti, Bruno Amoroso, ha scritto in un libro di averlo rivisto dopo la scomparsa. Nell’agosto 1998, però, il tribunale di Roma dichiarò la morte presunta in circostanze non appurate del noto economista.
Lo ricorda l’ex segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, vicino alle tesi economico- sociali di uno studioso che non è mai stato inquadrabile in uno schema dogmatico nel suo rapporto col potere.
Bertinotti, chi è stato Federico Caffè?
Un uomo molto influente, soprattutto negli ambienti della ricerca. Un professore che ha formato un’intera generazione di discepoli, diversamente in contatto tra di loro ma tutti legati dal suo insegnamento. Un intellettuale con una singolare capacità di incursione nel mondo politico, anche da tribune per così dire eretiche. Basti pensare alla sua collaborazione con il manifesto.
Un economista che, pur non essendo mai stato inquadrabile nella dogmatica della dottrina comunista, ha saputo parlare anche a quel mondo. Lo ha mai incontrato?
Non personalmente. Il suo, però, è stato un’insegnamento a cui mi sono sentito molto vicino, soprattutto negli anni della mia esperienza sindacale nella Cgil.
Come mai non è mai stato assimilabile ai cosiddetti intellettuali organici?
Per rispondere, è emblematico il titolo di un suo libro, “La solitudine del riformista”. Lui non lamentava - perchè non era uomo da lamento - ma testimoniava la solitudine dello studioso che rimane inascoltato.
Inascoltato da chi?
Inascoltato dal potere e dai governi, quanto è stato ascoltato nel mondo accademico e anche nella società politica attiva. Quella nei confronti del potere è stata la sua solitudine dominante, forte anche negli ambienti dove, invece, riteneva le sue parole potessero essere ascoltate.
Per farlo, avrebbe dovuto avvicinarsi di più a qualche componente politica?
Guardi, Federico Caffè era un uomo completamente fuori dal mainstream e soprattutto lontano dalla fascinazione del potere, e per questo è stato forse l’ultimo dei grandi a portare con onore la definizione di riformista: era totalmente immerso nella vita quotidiana, che era anche il suo laboratorio di ricerca economica e della critica economica.
Non è stato un uomo di potere, ma ha formato molti uomini che oggi sono al potere. I nomi sono molti: come quello del presidente della Bce, Mario Draghi e del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. La stupisce?
Non mi stupisce affatto. Io credo che, volendo schematizzare, esistano due tipi di maestri. Uno è quello che figlia per discendenza diretta, verticalmente, e cresce i suoi discepoli per similitudine e somiglianza. Questi discepoli appartengono a una scuola di pensiero e hanno meno trasgressioni e infedeltà. L’altro maestro, invece, semina e costruisce una relazione orizzontale con i propri discepoli. Questo consente loro il massimo della libertà di pensiero: possono persino pensare l’opposto, ma al maestro restano rispettosamente grati per un insegnamento che è anche di metodo e di vita. Ecco, Caffè era questo tipo di maestro.
Uno studioso che non è rimasto chiuso nella sua torre d’avorio accademica.
Tutti ricordano il suo famoso motto, sul fatto che il suo luogo fondamentale di studio era l’autobus, il 67 mi pare, con cui tutti i giorni raggiungeva l’università La Sapienza. Sedeva in fondo e osservava: per lui quella era la sede fondativa della ricerca e dello studio dell’economia. Ecco, proprio questo modo di fare inchiesta era la sua straordinaria risorsa, e ciò la dice lunga su quale fosse il suo modo di vivere e pensare.
E allora che collocazione ha avuto nella vita pubblica del Paese?
Il suo pensiero, che certamente è stato pervasivo anche negli ambienti di lotta e mobilitazione, è ascrivibile alla corrente del cambiamento degli anni Sessanta e Settanta. Gli studi di Caffè sono stati un elemento di fertilizzazione nell’onda lunga della crescita di quel periodo, e penso soprattutto al suo contributo alla riflessione sul cosiddetto “lavoro vivo”. La sua è stata una testimonianza in relazione dialogica con lo sviluppo di una prassi sociale e di un pensiero autonomo dalle compatibilità capitalistiche.
Quindi da dove nasce questa sua solitudine di riformista?
Se dal punto di vista teorico la solitudine si rompeva, tornava però in merito alle specifiche proposte da lui avanzate. Caffè era un pratico e delle riforme era portato a leggere in controluce la loro concreta realizzabilità e realizzazione. Insomma, proprio questa particolare concretezza nel leggere ogni percorso riformatore lo ha reso una figura molto singolare nel panorama politico del Paese, e così si spiega la sua solitudine.
Che cos’era il riformismo, secondo Caffè?
Siamo di fronte a un pensiero molto originale, tanto che - anche se forse è una forzatura - a Caffè si addice più l’aggettivo di rivoluzionario. Questo perchè nei suoi studi iscrive gli elementi specifici delle riforme - mi riferisco a quelle di struttura delle politiche economiche e del conflitto di classe - all’interno dell’orizzonte della trasformazione della società e addirittura del superamento della società capitalistica.
Caffè un rivoluzionario a sua insaputa, dunque?
Caffè si differenzia anche dalla sua autodefinizione di riformista e lo fa sul terreno concreto delle politiche da lui avanzate. La radicalità delle sue proposte di cambiamento non è inferiore a quella dei pensatori che si iscrivono esplicitamente nella corrente di pensiero che punta al superamento della scelta capitalistica.
E questo pur essendo un economista della scuola keynesiana?
Caffè apparteneva a quella parte della scuola keynesiana critica, che pensa all’intervento dello Stato come perseguimento della politica dell’eguaglianza, in particolare per costruire il regime di piena occupazione. Basta riflettere sulla sua tesi in merito all’intervento dello Stato come “occupatore di ultima istanza”.
E’ sulla questione del lavoro che si accentua il riformismo di Caffè?
A mio modo di vedere, la sua tesi ha caratteri addirittura di radicalità. Caffè muoveva proposte concretissime, tutte legate dalla tesi secondo la quale non esiste nulla di peggio della disoccupazione. La sua tesi di intervento pubblico nell’economia è sistematicamente funzionale proprio a quest’idea: in ultima istanza e qualora il privato non riesca, è lo Stato a dover essere occupatore per i lavoratori. Proprio questa sua teorizzazione è quasi eversiva, soprattutto rispetto alla miseria del dibattito attuale, tutto proiettato verso l’autoregolamentazione del mercato del lavoro.
Lei ricorda il giorno della sua scomparsa?
Sì, lo ricordo come un evento vissuto con un senso di privazione e di mancanza. La sua presenza era più rilevante di quanto lui stesso potesse credere e ricordo soprattutto che gli allievi a lui più prossimi si impegnarono moltissimo nella sua ricerca, che però purtroppo non approdò a nulla.
La sua scelta di sparire è rimasta e rimarrà per sempre senza un perché.
Io penso che proprio in questa sua scomparsa avvolta nel mistero ci sia traccia del suo lascito. Un lascito che parla del mistero della vita, cioè che anche lo scienziato sociale incontra un punto oltre il quale indagare sembra impossibile. Ecco, proprio questo approssimarsi del mistero rende più forte ancora il suo insegnamento per cambiare la società.