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Mi rendo conto che con il tempo sono cambiati anche gli uomini, le abitudini, gli stili e le mode, ma dubito che il mio amico e compianto Aldo Moro, al quale pure il corregionale Giuseppe Conte ha più volte detto di ispirarsi. Per quanto il presidente del Consiglio sia arrivato alla politica attraverso un movimento non proprio moroteo, si sarebbe lasciato scappare a proposito dei suoi alleati di governo, per quanto scomodi, le parole e le immagini attribuite dai giornali, non so se a torto o a ragione, al presidente del Consiglio in carica. “Ricatto” o “provocazione”, per esempio, sono termini che mai Moro, abilissimo e felpato nell’uso delle parole, avrebbe adoperato a carico di un socialista o di un socialdemocratico.
La sfiducia al solo ministro è legittima ma fossi Renzi sarei cauto e imiterei Moro che ai suoi tempi nel centro- sinistra, con o senza il trattino, stavano praticamente come adesso un piddino e un renziano, alle prese con un loro scontro su un tema controverso, come è diventato con particolare asprezza in questi giorni il problema della prescrizione. Col quale peraltro penso anche che Moro avrebbe avuto, da professore di diritto quale anche lui era, con predilezione però per il penale rispetto al civile più caro a Conte, un approccio più prudente di quello scelto dall’attuale presidente del Consiglio. Matteo Renzi ha molti buoni motivi, per carità, per meritarsi almeno una parte della diffidenza o dell’antipatia riservatagli dagli avversari, data la sua innaturata esuberanza, o spavalderia.
Persino un amico ed estimatore dichiarato come Claudio Velardi, già collaboratore peraltro di Massimo D’Alema, ha contestato in un salotto televisivo l’immagine della “mossa del cavallo” appena adoperata da Renzi, prima di riunirsi con i suoi parlamentari, a proposito di una eventuale mozione di sfiducia “individuale” al Senato contro il guardasigilli grillino Bonafede.
Che è contrario a sospendere il blocco della prescrizione in vigore dal 1° gennaio, all’arrivo della prima sentenza di giudizio, sino a quando non sarà adottata una riforma vera e garantita del processo penale. La cui «ragionevole durata» genericamente imposta dall’articolo 111 della Costituzione dovrà tradursi in tempi certi e definiti, non rimanere più appesa alle parole. I contrasti esplosi sulla materia dentro il governo e la maggioranza - provocati dalla dabbenaggine con la quale i leghisti alla fine del 2018 consentirono agli alleati grillini di mettere nel codice la prescrizione targata Bonafede senza l’esplicita contestualità con la promessa riforma del processo penale- sono troppo seri per essere liquidati alla stregua di una lite da cortile, di una partita strumentale, cioè propedeutica o funzionale a chissà quali e quanti altri giochi politici.
Renzi ha dalla sua parte, nel braccio di ferro che sta conducendo con le altre parti di una maggioranza peraltro da lui voluta, promossa e quant’altro in funzione antisalviniana nella scorsa estate, procuratori generali, il primo presidente della Cassazione, presidenti di Corte d’Appello, presidenti emeriti della Corte Costituzionale, avvocati e persino una parte del sindacato delle toghe pur schieratosi nei suoi vertici con Bonafede. Non mi sembra francamente poco, come non è sembrato poco sul Corriere della Sera ad Angelo Panebianco qualche giorno fa. Anche l’ipotesi, certamente clamorosa in sé, chiamiamola pure esplosiva, di una ritorsiva mozione di sfiducia contro il ministro della Giustizia al Senato, dove i renziani sono numericamente decisivi per la tenuta della maggioranza, non può essere liquidata, come ha fatto il capo della delegazione del Pd al governo Dario Franceschini, come una iniziativa bislacca, contestabile per il solo fatto di minacciare la sopravvivenza del governo.
Dove Bonafede in effetti non è solo il ministro della Giustizia ma da qualche settimana anche il capo della delegazione grillina, al posto dell’ormai ex capo del movimento, e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.
Franceschini, peraltro di ispirazione morotea pure lui come Conte, non può ignorare che fu proprio al Senato, e per iniziativa del partito in qualche modo all’origine del Pd, che decollò nell’autunno del 1995 contro l’allora guardasigilli Filippo Mancuso l’istituto della sfiducia “individuale”.
Che, respingendo un ricorso successivo dello stesso Mancuso, la Corte Costituzionale sancì con un suo verdetto di legittimità, separando sul piano istituzionale la sorte di un ministro da quella del governo, allora presieduto da Lamberto Dini.
Sarebbe quindi il caso che tutti, ma proprio tutti, si dessero una calmata in questo scontro all’arma bianca sulla prescrizione. Che rischia di diventare la classica buccia di banana su cui scivola tutto, anche la legislatura così avventurosamente - diciamo la verità - salvata in occasione dell’ultima crisi, con un acrobatico cambiamento, o capovolgimento, di maggioranza a guida ineditamente invariata.