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Se è vero che la Corte Costituzionale è il giudice delle leggi, allo stesso tempo è altresì vero che le decisioni che assume ricadono sui cittadini. È il caso di Salvatore Pezzino, detenuto che, seppur ergastolano ostativo, aveva chiesto l’accesso alla liberazione condizionale e la Corte di Cassazione (relatore il consigliere Giuseppe Santalucia, Presidente dell’Anm) aveva poi sollevato dubbio di legittimità costituzionale. Come sia andata a finire ve l’abbiamo raccontato spesso.
L’ultima tappa, solo in ordine di tempo, è la decisione della Consulta di rinviare tutto in Cassazione, pur avendo scritto che l'ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione. Oggi però vogliamo dare voce al signor Pezzino in carcere da circa 40 anni, da quando aveva 22 anni.
L’uomo è finito in prigione per diverse condanne: tentato omicidio, rapina aggravata, omicidio con l’aggravante dell’associazione mafiosa. Insomma, per qualcuno è il male assoluto. Eppure è cambiato, si è ravveduto e oggi, anche se a fatica, guarda al futuro. Adesso è rinchiuso a Tempio Pausania: abbiamo potuto raccogliere i suoi pensieri grazie all’intermediazione epistolare del suo avvocato Giovanna Araniti, che da anni si batte in tutte le sedi per ridare una speranza di libertà al suo assistito.
Lei è in carcere dal 2 dicembre 1984. Quasi quarant’anni. Cosa significa stare tutto questo tempo in una cella?
Spiegare come si sopravvive decenni in uno spazio vitale spesso al di sotto dei due metri quadrati non è facile. Forse è il non voler morire a nessun costo, andare avanti contro ogni logica, oppure la vita è così bella da essere vissuta in qualsiasi modo. Non c’è nulla di umano in una cella, che è una gabbia a tutti gli effetti. Gli animalisti contestano gli zoo perché è disumano tenere gli animali in gabbia che fanno avanti e indietro in modo ossessionante. Lo stesso fanno i carcerati nelle celle ma nessuno obietta. Negli anni gli addetti ai lavori sono stati bravi a modificare i termini sicché le “carceri-zoo” vengono chiamati Istituti e le “celle-gabbie” stanze di pernottamento. Durante gli anni trascorsi ad affrontare i processi ho avuto un crollo totale, rabbia, odio, disperazione. Ho pensato alla morte per molto tempo, ci parlavo, ci ragionavo, e credo di esserci arrivato a un passo, ma non sono capace di fuggire, voglio arrivare fino in fondo. Così mentre ero in isolamento a Sulmona per circa un anno senza parlare e vedere nessuno, imbottito di psicofarmaci e sedativi, ho deciso di vivere, anche se ogni forma di orgoglio e dignità veniva sbriciolata.
Lei è stato ospite di diversi istituti di pena. È d’accordo nel dire che spesso le condizioni di vita sono disumane e degradanti?
La risposta è molto facile: tutte le carceri sono disumane e degradanti. Le riforme vengono tenute nei cassetti, le leggi ci sono ma non vengono applicate. Qualche esempio: impianti di riscaldamento inefficienti, ventilatori inesistenti quasi dappertutto; le carceri d’estate sono forni e d’inverno freezer.
Qual è stato il carcere peggiore dove è stato rinchiuso?
C’è l’imbarazzo della scelta. I trasferimenti sono stati quasi tutti punitivi e casualmente finivo sempre in super carceri punitivi. Negli anni 80 non conoscevamo le riforme né avevamo consapevolezza della “umanizzazione della pena”, sicché carceri come l’Ucciardone con le bocche di lupo in pietra (nel sistema carcerario le bocche di lupo sono delle strutture collocate all’esterno di piccole aperture presenti nel muro in modo da permettere solo il passaggio dell’aria. Erano in uso nelle prigioni medievali, ndr) alle finestre e 20 ore chiusi in cella a fumare e giocare a carte era la normalità. Oppure nella famigerata “diramazione Fornelli” dell’Asinara dove c’era soltanto un bagno alla turca, l’acqua non era potabile, si andava a colloquio con i familiari con gli indumenti dell’amministrazione per distinguere sempre i detenuti dai civili (io per cinta avevo un pezzettino di spago e una scarpa senza tacco).
Ma tutti lavoravamo con una paga di circa 700-800 mila lire al mese e si aveva la sensazione di libertà perché non c’era muro di cinta ed eravamo in campagna e poi in estate ci facevano fare un bagno settimanale al mare scortati dalle guardie. Cominciando a capire le riforme e facendo pressioni sugli operatori trattamentali affinché le carceri divenissero luoghi di “attività” e non di “apatia” ovviamente con l’aiuto dei volontari e delle Associazioni la nostra mentalità cominciò a cambiare, ma non quella di tutti gli operatori. Purtroppo in alcune carceri continuano i pestaggi in isolamento e ‘celle lisce’: non si capisce più chi sono le guardie e chi i criminali.
Un carcere di questo tipo è in grado di rieducare?
Rieducare in queste condizioni non è pensabile. Devo ammettere per onestà che ho conosciuto educatori, assistenti sociali, agenti di polizia penitenziaria, magistrati di sorveglianza onesti, professionali ed umani. Ma sono pochi. Il detenuto ha bisogno di avere fiducia e di essere preso in considerazione. Occorrono riferimenti culturali che non siano criminogeni contro i detenuti stessi: ci vogliono figure esterne con cui poter dialogare, confrontarsi, percepire i veri valori sociali ed umani e farli propri. Non si può rieducare un detenuto se per 30 anni lo si tiene alla catena costringendolo a odiare tutto e tutti. Da carnefice diventa vittima e lo Stato ha perso la sua funzione.
Chi è l’uomo che è entrato in carcere e chi Salvatore Pezzino oggi?
Ero un ragazzo tanto educato quanto spavaldo, arrogante, pronto sempre allo scontro con chiunque mi mettesse in discussione, con un livello culturale pietoso. Negli anni ho sempre cercato di migliorarmi e colmare questa carenza frequentando persone al di fuori dei contesti carcerari e studiare per quanto mi è stato possibile. La sofferenza mi ha fatto cambiare un po’ per volta, la vita mi ha imposto delle scelte da cui non si torna indietro. La pena peggiore è rendersi conto delle proprie azioni e doverci convivere tutta la vita. Non so più chi sono, il carcere ti spoglia di tutte la personalità e dignità (in questi 38 anni la demolizione psico-fisica ha fatto un lavoro devastante), sono certamente un uomo stanco, deluso da tutto e tutti e sono solo alla ricerca di un luogo sereno.
Come è avvenuto il suo percorso di rieducazione?
In carcere ho frequentato corsi, scuola, teatro con insegnanti e volontari. Mi hanno dato sempre la spinta per migliorarmi e dare un buon esempio di me. Loro mi hanno davvero motivato in modo incredibile a revisionare la mia persona per assumere comportamenti consoni ad una società civile.
Cosa farebbe se un giorno riuscisse ad essere un uomo libero?
Pensare di tornare ad essere un uomo libero mi crea molte contraddizioni al momento. Da molti anni avevo un pensiero fisso: tornare nella mia vallata dove un tempo c’era una fiorente azienda agricola e allevamento di bestiame. A causa del mio arresto e in seguito alla morte dei miei genitori e con la revoca della semilibertà nel 2000 tutto venne abbandonato e ridotto a canneti e rovi. Il mio programma di vita era di reimpiantare tutto e far ritornare la valle fiorente come un tempo. Ho avuto anche modo e tempo di diplomarmi in agraria (un altro traguardo raggiunto) e questo era diventato il mio chiodo fisso. Adesso ho molti dubbi, comincia a venirmi meno la voglia di libertà, come se la cosa mi lasciasse indifferente. Non si può reggere a oltranza uno stillicidio mentale, non si può accettare di essere uno strumento “politico-ideologico” per accontentare il partito di turno o il giudice di turno. Sono molto stanco, cerco di non mollare facendo appello a tutto il mio orgoglio, ma non trovo appiglio.
Cosa risponde a chi si è detto contrario alla decisione della Corte Costituzionale, a chi vorrebbe che alcune persone rimanessero in carcere fino alla morte?
“Buttare via la chiave”, “pena certa”, “ergastolo fino alla morte”: sono le frasi che tutti i familiari delle vittime hanno il diritto di dire. Non si può controbattere al dolore di un familiare, abbiamo l’obbligo di ascoltare in silenzio tutto il loro sfogo. Il dramma è che ciò viene sostenuto anche da politici e giudici: hanno giurato sulla bandiera e sulla Costituzione. I giudici dovrebbero essere terzi dinanzi alla persona che giudicano e gli uomini e le donne delle Istituzioni non sono i familiari delle vittime, sanno che le leggi sono imperfette (come l’uomo), che non c’è equità tra il reato e la pena irrogata, sanno che le strutture carcerarie sono un abominio (così come i crimini), che le pene senza sconti producono una percentuale altissima di recidivi, che la figura del magistrato di sorveglianza è stata istituita anche per rivedere, nel tempo, il percorso di un condannato nell’opera di rieducazione per modificare la sua pena se meritevole. Io non sto chiedendo pietà né qualcosa per cui non sia meritevole, mi guardo allo specchio e ritengo di chiedere un mio diritto, così come i giudici hanno l’obbligo di assumersi le responsabilità delle loro decisioni e non fare ‘scarica barile’ o seguire correnti per loro ambizioni di carriera.
Un ergastolano una volta mi ha confessato: meglio la pena di morte al fine pena mai. Che ne pensa?
I sentimenti che si provano nel chiuso di una cella per anni sono davvero inimmaginabili, non è facile tradurre a parole. Molti pensano alla pena di morte come risoluzione (per questo in carcere vi è un così alto numero di suicidi) ma a condizione che arrivi subito, non dopo 25 o 30 anni. Diventare un relitto umano dopo decenni di prigionia, un disadattato, perdere la ragione nella speranza di una libertà che non arriverà, ammalarsi per finire i giorni in una branda come un vegetale senza le cure adeguate, è certamente il peggio che può succedere ad un ergastolano. Per questo ci auguriamo un infarto fulminante. È pur vero che nel tempo qualcosa può succedere: a qualcuno è stata riconosciuta l’innocenza, ad altri la pena è stata commutata in 30 anni, altri ancora sono riusciti ad accedere ai permessi premio, quindi sono dell’idea che, seppur tra sconforto e sofferenza, il “gioco vada portato avanti fino alla fine” perché finché c’è vita c’è speranza, finché la lucidità regge.
Vuole fare un appello al giudice di Cassazione che dovrà riesaminare il suo caso tra qualche mese?
Vorrei rammentargli che da quando è stata varata la Legge Gozzini (ritenuta l’unica legge umana in Italia) con tutte le altre forme di misure alternative alla detenzione, decine di migliaia di detenuti si sono rifatti una vita, voltando le spalle al loro passato. La percentuale di recidiva è stata messa in conto e ben valutata: quella percentuale non si è mai lontanamente avvicinata alla soglia di guardia. Ciò che fa sempre scalpore in Italia sono i singoli casi - talvolta certamente crimini orrendi – che sono strumentalizzati da una certa parte politica e da una certa informazione per condizionare l’opinione pubblica per portare avanti una lotta di bandiera per accaparrarsi voti elettorali. Ma che io ricordi questo al giudice di Cassazione è irrilevante: ben conoscono i sistemi politici e le “ragioni di Stato” per cui l’emergenza criminalità viene sempre “ravvivata periodicamente”, come ha fatto adesso Giorgia Meloni.
Vuole aggiungere qualcosa che ritiene importante dire?
Spessissimo in televisione si vedono testimonianze di persone con il volto celato per paura di denunce, ritorsioni o perdita del lavoro. Ai detenuti per reati di mafia, che magari stanno facendo un percorso in solitaria per chiudere un capitolo negativo della loro vita senza ulteriori conseguenze, viene chiesto di mostrare la faccia per fare nomi e cognomi di ipotetici complici o ritenuti tali (e coloro che sono innocenti?) con la conseguenza che questo causerebbe gravi ritorsioni per sé stesso e i propri familiari. Sicché la questione diventa: morire in carcere oppure farsi uccidere o fare uccidere qualche familiare? Usare questi sistemi di vendetta o ritorsione politica, giuridica e sociale è un sistema abietto e criminale, al pari del criminale stesso.