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Uno dice Ilva e tu pensi a Taranto. Perché è lì che lo gnommero delle contraddizioni produttive – gli altiforni vecchi, la nocività, l’aumento dei tumori nel quartiere Tamburi a ridosso dello stabilimento, una ristrutturazione che si è sempre rimandata perché non si sa bene chi dovrebbe farsene carico, l’intervento della magistratura, il braccio di ferro con gli indiani di Arcelor Mittal che dicono di voler mollare, poi dicono che rientrano a patto che si accetti quel determinato numero di esuberi e che vogliono lo scudo legale – e pure quelle istituzionali, se vogliamo dirla tutta, con mosse e contromosse di governo, è lì a Taranto che si gioca tutta la partita.
Ma Ilva è come una spina dorsale di quella che un tempo fu gloria d’Italia: la produzione d’acciaio di qualità: c’è l’Ilva di Racconigi, Cuneo, c’è l’Ilva di Novi Ligure, Alessandria, c’è l’Ilva di Paderno Dugnano, Milano, e c’è l’Ilva di Porto Marghera. Dall’Alpi alle Piramidi. Quando si parla dei seimilacinquecento esuberi entro il 2023, di cui probabilmente 2900 un per subito a Taranto, ci sono dentro però anche i 145 lavoratori di Racconigi, i 681 di Novi Ligure, i 180 degli uffici amministrativi di viale Certosa a Milano e i 40 del magazzino di Paderno. E non contiamo quelli dell’indotto: il segretario Fim- Cisl di Novi Ligure dice che ce ne sono altrettanti che finirebbero sul lastrico – proprio come altrettanti sarebbero quelli dell’indotto intorno lo stabilimento di Taranto.
Sul sito dell’Ilva di Porto Marghera c’è scritto: «Ilva altiforni e acciaierie d’Italia. Stabilimento di Porto Marghera ( 1931 - 1961) Date di esistenza: 1931- 2012 ( le date si riferiscono all'attività produttiva dello stabilimento)». E più avanti: «Cenni storici: Sulla cosiddetta insula ovest, di fronte ai cantieri della Breda, sorse uno dei primi stabilimenti produttivi di Porto Marghera, su iniziativa dello stesso Giuseppe Volpi conte di Misurata, tra i principali ideatori e artefici del nuovo porto industriale veneziano: si trattava dell’insediamento dei Cantieri navali e acciaierie di Venezia- CNAV, nati grazie alla partecipazione finanziaria di importanti industrie nazionali del settore metallurgico e non solo, come l’Ansaldo, la Società altiforni fonderie di Terni, Società altiforni fonderie e acciaierie di Piombino, Società adriatica di elettricità- SADE e molte altre.
Nel 1919 iniziarono i lavori per la costruzione della fabbrica...». E si conclude: «Oggi Ilva è ancora presente a Porto Marghera, ma solo con uno scalo marittimo per l’acciaio proveniente dallo stabilimento di Taranto». E tu capisci che la storia è finita. Tutta la storia dell’industrializzazione di questo paese e di quella che da tempo è la sua de- industrializzazione sta qui, in queste poche righe. Dove c’è orgoglio e malinconia. Perché di orgoglio e malinconia è impastato oggi il sentimento operaio.
Eccoli qua gli operai – sono a piazza Santi Apostoli a Roma a manifestare, mille solo da Taranto, dove sono in sciopero, per una delle tre giornate previste dalla mobilitazione di Cgil, Cisl e Uil. A Taranto, tra siderurgico e imprese appaltatrici, lo sciopero è cominciato alle 23 del 10 dicembre e è andato avanti per 32 ore fino alle 7 dell' 11. «Tutti gli stabilimenti del gruppo Ilva sono chiusi per lo sciopero con un'adesione a Genova e Novi Ligure del 80 percento, a Taranto del 90 percento, a Racconigi, Padova e Marghera al 100 percento». Lo dice la segretaria della Fiom, Francesca Re David. E tu senti l’orgoglio.
Ma delegazioni Ilva sono venute da tutti gli stabilimenti. E ci sono quelli delle centosessanta vertenze in corso – forse se uno lo ripete colpisce di più: centosessanta tavoli di vertenza in corso. Parliamo di qualcosa tra gli 80mila e i 200mila lavoratori. Ci sono Whirlpool e Mercatone Uno, Auchan e Dado Knorr, Almaviva e Alitalia, Pernigotti e Alcoa e tanti tanti altri, nomi “familiari”, parliamo di brodi, di cioccolatini, di lavatrici, che più d’altro danno l’idea della vastità e profondità del processo.
Cipputi è ancora qua. Non va nei talk show, non lo invitano a Porta a porta, non lo chiama Formigli, non ci fanno i servizi di approfondimento. Ma Cipputi c’è. Sgobba, fatica, produce – maledice. Disincantato, è da tempo che non va in paradiso – ma non immaginava di dover finire all’inferno. Di dover combattere con le unghie e con i denti per fare il suo lavoro, produrre. È il suo ruolo sociale, cazzo – se l’operaio non produce, se non fa brodi, cioccolatini, lavatrici, acciaio, cos’è?
Dice Landini: «Bisogna ricostruire questo Paese, i lavoratori hanno il diritto di vivere dignitosamente». Dice Annalisa Furlan: «Finché non avremo le risposte alle questioni che un anno fa abbiamo aperto insieme, noi continueremo nella mobilitazione, nella nostra lotta. Non ci bastano i cambiamenti di modi, abbiamo bisogno di risposte». Dice Barbagallo: «Sta avvenendo nel Paese una deindustrializzazione che porterà gravi conseguenze. Dietro i numeri e le vertenze ci sono migliaia di famiglie che rischiano di passare nel modo peggiore il prossimo Natale».
E non solo Natale, mi sa. E tu senti tanta malinconia. Ma Cipputi c’è ancora. E non ha voglia di mollare. E questa è la vera buona novella, ora che viene Natale.