In attesa dei ballottaggi «nei quali ci divertiremo», come promette Matteo Renzi, non è inutile cercare di capire come stanno messi i protagonisti. Quelli del Pd, come s’è capito, maluccio. Perché? Perché a Napoli ci voleva il commissario? O perché a Roma c’è gia? Perché Giachetti non ha fatto Giachetti (e in che senso: più populista, meno populista? Più coatto, meno pariolino?)? O perché Merola ha fatto Merola? Tutte spiegazioni, pizzico di ironia a parte, possibili. Ma la sensazione che il male oscuro del Pd sia qualcosa di diverso e più profondo, prende corpo. Brutalizzando, quel male potrebbe avere almeno un paio di motivazioni. La prima, che il Partito Democratico sui territori - emblematico il caso delle periferie romane ma la questione potrebbe essere estesa a quasi tutte le regioni - fatica ad essere in sintonia con i bisogni profondi dell’elettorato, a partire dal suo. La seconda, ancora più importante, è che il prodotto Renzi non tira più come prima sul mercato del consenso politico.Vediamo. Intanto qualche approfondimento sulle cifre, facendo tesoro di quelle pubblicate sul webmagazine “La rivista intelligente”. A Torino, Piero Fassino perde circa 20 mila voti rispetto al 2013 quando segretario era Bersani e il doppio, cioè 40 mila, rispetto al boom renziano delle Europee. A Milano, Beppe Sala perde 30 mila voti rispetto al 2013 e 50 mila rispetto alle Europee. Roma e Bologna sono il picco negativo. Nel capoluogo emiliano, la perdita è del 46 per cento sulle politiche e del 44 sulle Europee. A Roma idem: - 47 per cento e - 43, rispettivamente. Se le cose stanno così, Renzi il commissario dovrebbe mandarlo a Bologna. E forse sostituire quello che c’è a Roma, che per inciso è anche il presidente del partito. Queste cifre dicono anche un’altra cosa. Che il segretario il suo partito lo frequenta poco: anzi, secondo i suoi detrattori, in tanti casi dà l’impressione di snobbarlo, considerandolo una inutile zavorra, un orpello color seppia residuo del Novecento. Malignità, sicuramente: uno che dice di essere “deluso” evidentemente su quel partito nutre aspettative. L’opposizione interna - non solo e, in verità, non tutta - un antidoto l’ha individuato: basta con il doppio incarico, Matteo faccia il premier e un altro svolga le funzioni di segretario. Critica insinuante, non priva di qualche elemento di fondatezza. Ma è anche vero che se il segretario è un replicante del leader, la sua funzione è poco più che decorativa. Se invece è dialettico, allora è solo questione di tempo prima che nasca il conflitto. Da sempre la diarchia produce fenomeni di competizione. Che poi è probabilmente l’obiettivo vero della minoranza. Dunque prima di usare, come ha intimato, il lanciafiamme al Sud, Renzi dovrebbe per prima cosa chiarire quale modello di partito ha in testa, con quali articolazioni territoriali intende avere un confronto e, soprattutto, in che modo prevede di selezionare la classe dirigente locale, visto che le primarie si sono dimostrate strumento non così adeguato ed in generale poco affidabile.La seconda motivazione, appunto, è ancora più importante. Perché attiene alla figura stessa del leader. E’ difficile negare che in questi due anni e passa di governo il presidente del Consiglio abbia dato più rilevanza al suo ruolo di premier che a quello di capo-partito. Questo, probabilmente, anche in virtù di una concezione secondo cui palazzo Chigi è la postazione ideale, anzi l’unica, dalla quale si può irradiare al meglio il riformismo di marca renziana. Per capirci. Mentre i Cinquestelle hanno una chiave di lettura della politica sintonizzata sulla rabbia popolare, di quella si servono e su quella fanno leva per guadagnare voti; la chiave di Renzi è impostata su un prodotto che come etichetta ha la sua effigie. La rottamazione è un corollario del renzismo; il cambiamento della Costituzione idem, le riforme del lavoro uguale. Tutto il resto scolora.Ma il bunker di palazzo Chigi nell’immaginario collettivo facilmente diventa il Palazzo d’inverno da espugnare. Specie se gli effetti speciali promessi faticano a concretizzarsi. Forse è qui la risposta alla domanda che Renzi stesso con disappunto si pone, e cioè come mai gli italiani non avvertano che le tasse sono diminuite; l’occupazione salita, la scuola migliorata, la casta recisa, la Costituzione ammodernata, il ruolo dell’Italia nella Ue accresciuto, e così via. Gli elettori quegli effetti faticano ad avvertirli per ragioni reali: per dirne una, appena ieri l’Istat è tornata ad lanciare l’allarme sul fatto che la crescita - peraltro sempre solo di decimali - è destinata ad allentarsi. E poi se comunque tutte quelle cose hanno sopra la stampigliatura “by Renzi”, le percepiscono come non proprie.Adesso si tratta di stabilire la strategia giusta per i ballottaggi del 19 giugno, sapendo che se oltre Napoli dovessero finire in mano alle opposizioni anche Roma, Milano e Torino, la delusione finirebbe per chiamarsi un altro modo: una debàcle. Con un sospetto in più. Che la Santa Alleanza di tutti contro Matteo già in preparazione per il referendum di ottobre, oggi si rafforza. Potrebbe fare la prova generale nel secondo turno amministrativo: gli ammiccamenti del centrodestra, e non più del solo Salvini, all’indirizzo dei grillini sono poco rassicuranti. E poi esplodere a ottobre. «Chi vuole il cambiamento non può che votare Sì», taglia corto il premier. E sembra una golden share. Ma se la domanda sul cambiamento investe direttamente il capo del governo, quella golden share potrebbe assumere le fattezze di un boomerang.