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Il Jobs Act? Funziona. Contrordine, è un fallimento. Prima i dati del ministero del Lavoro dicono una cosa, poi arrivano quelli dell'Istat che affermano l'esatto contrario. Cambiano le forme di rilevazione e con esse anche i giudizi sulla riforma. Risultato: a guardare il susseguirsi dei tassi sull'andamento del mercato del lavoro ci si sente come sulle montagne russe. Abbiamo chiesto al padre del Jobs Act, Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, di aiutarci a fare un po' di chiarezza. E lui ci ha indicato come uscire dalla "nebbia" dei dati sul lavoro.Prima il Jobs Act pare che faccia miracoli, poi invece viene descritto come un insuccesso. I dati sul mercato del lavoro, spesso contrastanti, stanno generando grande confusione. Come se ne esce?Ho una proposta: facciamo come negli altri Paesi. Ovvero, guardiamo innanzitutto ai dati Istat, specie a quelli trimestrali. Poi studiamo quelli sulle posizioni contributive prodotti dall'Inps. È un modello che vale in tutti i Paesi, funzionerà anche da noi. Ciò ci consentirebbe di effettuare un'analisi dettagliata dei posti di lavoro e della loro qualità. Ma purtroppo spesso piace più il dato forte di quello corretto. Il mio dovere è comunque quello di lottare ogni giorno per la chiarezza. E la realtà è che il nostro mercato del lavoro migliora. Semmai è l'economia che ci deve preoccupare.Come ha accolto gli ultimi dati Istat sul mercato del lavoro, stando ai quali nel secondo trimestre del 2016 ci sono stati 189mila occupati in più?Questi dati dicono che il nostro mercato del lavoro è vivo. La crescita è moderata, ma l'occupazione ha continuato ad aumentare nonostante il Pil si sia fermato. Rispetto a un anno fa sono aumentati gli occupati (+380mila), come del resto i lavoratori che hanno un lavoro a tempo indeterminato (+274mila): è il livello più alto dal terzo trimestre del 2009. Anche il numero delle persone che lavorano a tempo pieno (18 milioni e 657mila) è il più alto che è stato registrato dal 2013 ad oggi. Certo, siamo ancora sotto ai livelli precedenti alla crisi. Ma favorire questo miglioramento dell'occupazione, specie in un periodo di bassa crescita, era il vero effetto auspicato dal Jobs Act.Ma i dati sul secondo trimestre non sono già stati "superati" da quelli di luglio che, per la prima volta dopo quattro mesi, davano l'occupazione in calo?I dati delle rilevazioni mensili sono utili, ma come ho detto se vogliamo dare una valutazione strutturale è meglio guardare al dato trimestrale. E poi davvero non comprendo cosa voglia dire "superati". Comunque, includendo i dati di luglio ci sono 585mila persone in più che hanno un lavoro in aggiunta a quelle che lo avevano a febbraio 2014, di cui 2 su 3 a tempo indeterminato. Il mio problema non è luglio, ma la dinamica di crescita, mondiale e italiana, e l'andamento della produttività. Penso che oggi le economie occidentali debbano cambiare in profondità il loro sistema produttivo, ma non è semplice.A fronte di un Pil che non cresce, c'è chi sostiene che la crescita dell'occupazione non è altro che una misura del calo della produttività. Lei cosa ne pensa?In parte è vero, ma c'è dell'altro. Le persone che tornano al lavoro hanno la possibilità di sviluppare le proprie competenze. Riportarle al lavoro, incentivando il lavoro stabile, è un'operazione industriale che punta ad accrescere la produttività futura. Come speriamo, altrimenti, che le persone tornino a crescere, dopo che la nostra economia ha distrutto un milione di posti di lavoro durante la crisi? Oggi il centro della mia preoccupazione è preparare il futuro, non solo gestire il presente.