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Oltre le Alpi il caso Polanski sta assumendo i contorni di una vera e propria guerra ideologica. Il picco conflittuale di questo affaire si è raggiunto durante la surreale premiazione dei César (gli Oscar francesi) che ha visto migliaia di persone scendere in piazza a Parigi per contestare il premio per la miglior regia assegnato, per l'appunto, a Polanski per il suo J'accuse, pellicola consacrata al caso Deryfuss.
Striscioni con il volto del cineasta quasi 90enne ribattezzato "Violanski", slogan, insulti, tafferugli con le forze dell'ordine. Buona parte del movimento femminista transalpino si è infatti indignata per la celebrazione di un artista che, ai suoi occhi, non è altro che un volgare stupratore di minorenni. Il riferimento è alla violenza sessuale commessa nel 1977 a Los Angeles nei confronti di Samantha Geimer, allora 13enne, che venne spinta ad assumere droghe e venne abusata mentre era in stato di incoscienza. Da quella squallida vicenda sono passati 43 anni e la stessa Geimer da oltre un quarto di secolo implora i media di lasciarla in pace, di non citare il suo nome, di non strumentalizzare il suo dolore, insomma di spegnere i riflettori.
Ma che importa? Delle migliaia di femministe scese in piazza chi ricorda il nome di Samantha? Probabilmente molto poche, ed è logico, per il movimento Polanski è un archetipo, è il maschio bianco ricco, etero e stupratore. Lo spiega bene una delle sacerdotesse del femminismo francese, Virginie Despentes, che sulle colonne di Libération lancia una virulenta invettiva proprio contro i maschi "ricchi e dominanti e i loro piselli sporchi di sangue e di merda". Parole durissime e ad effetto, con lo scopo di "smascherare" le liturgie patriarcali che tanto ammorbano la libertà delle donne. "La cerimonia dei César è un rito etero-patriarcale di riabilitazione dello stupratore Polanski, il maschio etero-patriarcale non considera lo stupro come una possibilità ma lo esige concettualmente come condizione per esercitare la sua sovranità maschile".
Un intervento "militante" che mischia la critica al maschilismo a quella della società capitalista facendo di tutt'erba un fascio, un intervento salutato da molti e molte intellettuali come una "boccata d'aria fresca". Non la pensa così Natasha Polony, scrittrice e giornalista che sul settimanale Marianne attacca le intemerate di Despentes che a suo avviso non hanno nulla a che vedere con la battaglia per i diritti delle donne: "Al contrario di Despentes non credo che sia il patriarcato a impormi di depilarmi le gambe, non credo che prendermi cura del mio corpo voglia dire sottomettermi all'ordine maschile e alle mie figli insegno che il femminismo è emancipazione e non vendetta o pubblica gogna". Polony continua, spiegando di "non provare alcuna tenerezza per Polanski", ma ammettendo di amare molto i suoi film e di non considerare il regista come un simbolo della brutalità maschile: "Ci sono donne che hanno subito violenza che non danno la colpa a tutto il genere maschile e che rifiutano di rappresentarsi come delle vittime. Coloro che hanno confiscato la bella parola femminismo per farne uno strumento di vendetta non hanno il monopolio del discorso sui rapporti uomo-donna". Ma l'aspetto che più fa indignare la scrittrice è la caccia ai "collaborazionisti", ossia a chi non si è allineato al pensiero unico della pubblica gogna, collaborazionisti che per Despentes "umiliano le donne per procura, imponendo la legge del silenzio". Insomma, gli uomini sono tutti colpevoli e se tacciono lo sono doppiamente in quanto proteggono la bestia con il muro dell'omertà.
"E' comodo il silenzio-conclude Polony-perché gli puoi far dire ciò che vuoi. E c'è da dire che il silenzio, di questi tempi, è quello che viene imposto agli universitari, ai giornalisti, agli scrittori, ai politici e a chiunque voglia criticare questo femminismo vendicativo. A gli uomini tutti, invitati a starsene zitti perché dominatori. Ma anche alle donne, sì, le donne che subiscono abusi e molestie sui mezzi pubblici o in ufficio che si ribellano alle prevaricazioni senza riconoscersi nella bulimia concettuale delle ayatollah del femminisno queer"