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C’è da rimpiangere l’elettroshock che, nella sua brutale immediatezza, era almeno praticato in buonafede.
O le catene di montaggio delle fabbriche fordiste dove, tra il clangore delle macchine e il ringhio dei capetti il conflitto era aperto e dichiarato.
La “scatola del benessere” riservata ai dipendenti di Amazon invece assomiglia più alla deprivazione sensoriale in voga a Guantanamo o ad altri sadismi contemporanei.
Ma in versione new age, come piace al grande capo Jeff Bezos, l’uomo più ricco del pianeta: è l’ AmaZen, di fatto una specie di bagno chimico che spunta al centro dei giganteschi capannoni dove si assiepano le merci gestite dal colosso dell’e- commerce mondiale.
E dove i dipendenti possono entrare per godersi qualche minuto di relax, nella mezz’ora di pausa ovviamente: grande come una cabina del telefono, all’interno di Ama-Zen ( il cui nome tecnico è Mindful Practice Room) il soffitto è un cielo azzurro con soffici nuvole bianche, su uno schermo scorrono immagini di ameni paesaggi naturali mentre una combinazione di suoni “rilassanti” esce da una cassa.
Un incubo alla Black Mirror, la serie tv britannica da cui Amazon sembra ispirarsi in ogni sua scelta: «Si possono svolgere attività fisiche e intellettuali, esercizi di meditazione o ascoltare consigli nutrizionali», giura nel video promozionale Leila Brown, responsabile del programma Working Well, concepito per «far ricaricare le batterie agli impiegati».
Le “batterie”, un’immagine coerente con la concezione che Amazon ha del lavoro: dipendenti- robot che devono essere ricaricati periodicamente per poter rendere sempre al massimo, con orari schizofrenici e turni al limite della sopportazione fisica.
Per non parlare del controllo orwelliano che subisce ogni persona assunta dalla ditta, in particolare chi è assegnato alle consegne esterne: ispezioni dell’igiene personale, dell’odore corporeo, test anti- droga realizzati in modo estemporaneo ogni volta che l’azienda lo ritiene necessario, obbligo di alcuni tagli di capelli, sorveglianza delle attività sui social- network, geolocalizzazione perpetua.
E il licenziamento, va da sé, che è sempre dietro l’angolo, anche se non hai infranto alcuna regola, basta essere «poco simpatici» o «non aver legato con gli altri», raccontano gli ex dipendenti.
La stessa azienda che lo scorso aprile aveva ammesso di fornire ai suoi autisti una bottiglia di plastica per fare pipì in modo da ottimizzare i tempi di consegna dei pacchi:, d’altra parte, come rcita il jingle, Amazon garantisce al cliente, “Prezzi bassi quando e dove vuoi”.
«A volte è difficile trovare un bagno pubblico, specialmente in tempi di Covid», si erano giustificate le teste d’uovo del settore comunicazione, la stessa disastrosa accolita di “creativi” che da anni concepisce le inquietanti campagne pubblicitarie di Amazon.
Basta accendere la televisione o navigare su internet per inciampare nei famigerati spot dove persone di mezza età con alle spalle esistenze distrutte fanno da testimonial della ditta ringraziandola di aver dato loro una nuova “possibilità”.
O giovani precari che girano come trottole, a volte per meno di mille euro al mese e con il sorriso stampato sempre sulla bocca, un mood spensierato che dovrebbe rappresentare il marchio distintivo dell’impresa, oltre alla sua vocazione ambientalista decantata in modo ossessivo con la sua “flotta” di auto elettriche e le sue pratiche eco- friendly.
In altri termini. facchinaggio estremo organizzato secondo la logica post- fordista del just in time, del flusso teso che dalla produzione si trasferisce alla distribuzione con quella spruzzata di progressismo. Uno schiavismo 2.0 in cui sembrano prendere corpo le peggiori distopie sul lavoro alienato e sul condizionamento degli individui.
La promozione della cabina AmaZen ha comprensibilmente fatto incazzare il cosiddetto popolo del web il quale, da Twitter a Facebook, da Tik Tok a Istagram ha talmente ricoperto di insulti i dirigenti di Amazon che il video è stato rimosso.
Ma non il programma benessere per i lavoratori, quello andrà avanti chissà con quali nuove, raccapriccianti sorprese.
In uno dei suoi recenti interventi pubblici lo scorso aprile Bezos, dopo le critiche piovute da mezzo mondo, si era «rammaricato» delle condizioni di lavoro nei suoi magazzini, promettendo che le cose sarebbero migliorate in fretta, che lui ha a cuore il benessere dei dipendenti.
Per rassicurare che non si tratti di promessa da marinaio Bezos ha spiegato che «un sofisticato algoritmo sta lavorando al problema per trovare le migliori soluzioni». Ora siamo tutti più tranquilli.