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In Parlamento e aree limitrofe è caccia grossa. Fuori i nomi dei cinque “furbetti”, come sono stati ribattezzati senza spreco di fantasia i 5 onorevoli, tre della Lega, uno del M5S e uno di Iv che hanno chiesto il bonus autonomi di 600 euro nonostante godano di uno stipendio che non si può definire da fame. Il più imbarazzato è Salvini: con tre dei suoi nella listaccia la croce dal dorso non gliela toglie nessuno. Di Maio invece si frega le mani. Quell'unico reprobo pentastellato non offusca l'occasione propagandistica d'oro e diamanti in vista del referendum sul taglio dei parlamentari. Quei cinque insaziabili sono la prova provata della nefandezza parlamentare. Il loro affronto alla miseria grida vendetta e quale occasione migliore per coglierla di un referendum il cui senso compiutamente antiparlamentare non sfugge a nessuno proprio dietro l'angolo. Le dimissioni, se mai i partiti di appartenenza riusciranno a strapparle ed è ben poco probabile, non laveranno l'onta, le bordate propagandistiche resteranno ad alzo zero. Non che siano davvero giustificate però. I cinque non hanno trasgredito alcuna legge: si sono avvalsi di una norma che li favoriva. Può non essere corretto e certamente non lo è ma nulla di più. Al contrario, la percentuale dovrebbe suonare quasi rassicurante. Cinque parlamentari su circa mille, ciascuno dei quali avrebbe avuto tutto il diritto di avanzare la sua brava richiesta di bonus, sono lo 0,5%. Tenendo conto del vertiginoso abbassamento del livello medio dei parlamentari nell'ultimo quindicennio, dovuto proprio alla perdita di ruolo del Parlamento stesso, non è neppure una percentuale da strapparsi i capelli. Il problema serio dovrebbe riguardare una tendenza che il caso Montecitorio indica e che al di fuori del Parlamento ha dimensioni ben più massicce. Se quei parlamentari, e sembrerebbe un paio di migliaia di consiglieri comunali e regionali, hanno potuto chiedere il bonus è perché il governo aveva deciso di lasciare le maglie molto larghe, senza condizioni controlli o filtri di alcun genere. Disfunzioni a parte, il bonus doveva essere erogato a tutti. Su una altra voce “di ristoro” però la scelta è stata opposta: il reddito di emergenza, destinato ai più poveri e ai più penalizzati dalla crisi, è stato ridotto all'osso, 400 euro una tantum raddoppiati per le famiglie molto numerose, e soprattutto le condizioni per accedervi sono state fissate con tanta rigorosità da tagliare fuori buona parte della platea. Alla fine il rde è arrivato solo a un terzo della platea inizialmente prevista. In questo caso non si tratta della furbizia di un numero insignificante di deputati e neppure di una distrazione: al contrario una parte della maggioranza aveva segnalato e protestato per i criteri opposti con i quali il governo guardava agli autonomi da un lato e ai precari dall'altro. Del resto, proprio mentre tagliava (di oltre due terzi) il fondo previsto per il reddito d'emergenza il governo allargava gli sgravi fiscali a tutte le aziende, incluse quelle che nella crisi non hanno perso o hanno guadagnato. Non è infine un mistero che molte aziende si siano avvalse della cassa integrazione continuando a far lavorare da casa i dipendenti e limitandosi a risparmiare sugli stipendi. Lo scandaletto di Montecitorio è solo la schiuma sulla cresta di un'onda gigantesca. Al di là della palese ingiustizia, la decisione del governo di muoversi in questa direzione è allarmante, in vista delle scelte da compiersi con il Recovery Fund europeo, perché conferma due tendenze esiziali. La prima, non certo limitata all'Italia, è il miraggio di raggiungere un'impossibile quadratura del cerchio: la speranza di mantenere basso il costo del lavoro, altissime le diseguaglianze sociali e tuttavia rilanciare la domanda interna. La logica della iniqua ripartizione delle risorse nel dl emergenziali del governo Conte è evidente. Inutile dare soldi a chi ne ha pochissimi, perché comunque non spenderebbe e l'investimento sarebbe a fondo perduto in termini di aumento della domanda interna. Molto meglio sostenere il ceto medio e quello medio alto auspicando che consumino, spendano e riportino in alto la domanda interna. Non ha mai funzionato e non funzionerà neppure stavolta: senza quell'intervento drastico sulle diseguaglianze sociali che peraltro la Commissione europea stessa invoca a gran voce non ci sarà vera ripresa della domanda interna e dunque del Pil. La seconda tendenza è invece essenzialmente italiana. Consiste in una politica industriale ridotta a sovvenzionare le aziende, senza alcuna visione strategica e senza alcun ruolo oltre l'assecondare l'eterna tendenza del capitalismo italiano a farsi assistere.