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Ecco, questo in ricordo del mio amico Ciriaco De Mita, morto ieri mattina in una clinica di Avellino a 94 anni compiuti a febbraio, è un articolo che mi sarei volentieri risparmiato per la complessità dei rapporti che abbiamo avuto per una sessantina d’anni: forti tanto di simpatia personale, nata sui divani e nei corridoi galeotti della Camera, quanto di ostilità politica. Ci siamo sempre trovati divisi nel giudizio sugli altri, a cominciare da quelli del suo partito, la Dc. Mi piacque subito, da giovanissimo cronista parlamentare, quel suo modo molto arabesco di ragionare, sino a imporre qualche volta una certa fatica a seguirlo, e quel temperamento deciso, sino al gusto della sfida: un po’ come Amintore Fanfani. Avrei per questo voluto dire e scrivere anche di lui, come feci sul Momento sera a proposito di Arnaldo Forlani, conquistandomene subito la curiosità diventata poi anch’essa amicizia, che De Mita poteva considerarsi moroteo col cervello e fanfaniano col cuore. Ma Ciriaco, diversamente da Forlani, di cui a quell’epoca era vice segretario, era molto severo parlando di Moro. Gli rimproverava di essere stato troppo debole con gli alleati socialisti alla guida dei primi governi “organici” di centrosinistra, per cui fu ben felice dopo le elezioni politiche del 1968 di contribuire da sinistra, di cui era uno dei leader con la sua corrente chiamata “Base”, ad allontanarlo da Palazzo Chigi. E tre anni dopo, alla fine del 1971, quando Moro ebbe l’occasione di poter essere candidato al Quirinale dopo il fallimento di una lunga corsa di Fanfani, pur partito dalla postazione privilegiata di presidente del Senato, egli partecipò alle operazioni dietro le quinte per l’elezione invece di Giovanni Leone.Il fatto è che Ciriaco, seduto su un divano di Montecitorio, già prima che si cominciasse a votare su Fanfani mi aveva preconizzato quasi provocatoriamente, conoscendo bene le simpatie che avevo per Moro, l’elezione appunto di Leone, allora fuori dalle previsioni, pur essendo stato candidato alla Presidenza della Repubblica già nel 1964. Allora Moro da Palazzo Chigi lo aveva convinto a rinunciare a vantaggio del socialdemocratico Giuseppe Saragat. Che agli occhi di Moro, allora presidente del Consiglio, aveva il vantaggio di stabilizzare l’alleanza di centrosinistra mentre cominciava a maturare l’unificazione socialista, temuta da molti democristiani perché avrebbe potuto aumentare il potere contrattuale dei socialisti. In cambio Moro aveva procurato a Leone la nomina a senatore a vita da parte del nuovo presidente della Repubblica, succeduto al’impedito Antonio Segni, colto da ictus nell’estate di quello stesso 1964: un’estate torrida anche sul piano politico, col rischio a torto o a ragione avvertito a sinistra di un colpo di Stato per troncare quasi nella culla l’esperimento del centrosinistra. Su Moro poi De Mita ci ripensò, non prima tuttavia di procurargli un altro dispiacere facendogli mancare al primo scrutinio i voti necessari all’elezione a presidente quanto meno della Dc, essendogli mancato il Quirinale. Dovetti faticare modestamente un po’ anch’io nel rimuovere Moro dal rifiuto di sottoporsi ad un’altra votazione per assumere una carica - ahimè - che avrebbe poi contribuito alla sua morte. Nel 1978 egli era infatti presidente dello scudocrociato, più influente dell’amico segretario del partito Benigno Zaccagnini, quando le brigate rosse progettarono e realizzarono il suo spettacolare sequestro sterminandone la scorta e uccidendo anche lui dopo 55 giorni di penosa prigionia. Durante la quale Craxi, arrivato nel 1976 alla segreteria del Psi al posto di Francesco De Martino, cercò inutilmente, direi disperatamente di strappare la Dc alla cosiddetta linea della fermezza pretesa e ottenuta dal Pci di Enrico Berlinguer nella maggioranza di solidarietà nazionale gestita a Palazzo Chigi da Giulio Andreotti.Anche in quel passaggio mi trovai in disaccordo con De Mita, che vedeva nell’agitazione “trattativista” di Craxi - per quanto limitata alla concessione della grazia presidenziale alla sola Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici detenuti con i quali i terroristi avevano preteso di scambiare Moro - un odioso, strumentale tentativo di spaccare la Dc e, più in generale, la maggioranza di governo per aprire poi una nuova edizione del centrosinistra a partecipazione socialista più decisiva. Fedele a questa visione delle cose, cioè “prevenuto” verso Craxi, come gli dicevo procurandomi smorfie e gesti liquidatori, quando il segretario socialista davvero capovolse la linea demartiniana di appiattimento del Psi sulle posizioni del Pci, formulata in quel famoso impegno a “non tornare mai più con la Dc senza i comunisti”, De Mita si propose di sbarrargli la strada di Palazzo Chigi, Che pure gli era stata tracciata nell’estate del 1979 dal presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini con un incarico di presidente del Consiglio a sorpresa. A favore del quale nella direzione della Dc si schierò, astenendosi nella votazione di bocciatura del tentativo di Craxi di formare il governo, solo Forlani. Proprio in funzione di antagonismo, contro la prospettiva di un governo di centrosinistra presieduto dal leader socialista, De Mita si propose e fu eletto alla segreteria della Dc nel 1982, un anno prima delle elezioni politiche tradottesi però in un arretramento dello scudocrociato. Così la presidenza socialista del Consiglio uscita dalla finestra con i governi prima di Francesco Cossiga, poi di Arnaldo Forlani poi ancora di Giovanni Spadolini e infine di Amintore Fanfani, entrò dalla porta nelle trattative per la formazione del primo governo della nona legislatura repubblicana. Fu un colpo duro per De Mita, e anche per il segretario del Pci Enrico Berlinguer, che si aspettava dal segretario della Dc una più forte resistenza alla promozione non del compagno socialista Craxi ma dell’avversario, deciso a ribaltare i rapporti di forza fra il Psi e il Pci.De Mita, che aveva praticamente scommesso tutte le sue carte personali e le prospettive generali del Paese più sull’evoluzione dei comunisti che sulla collaborazione con i socialisti, stette al gioco di Craxi a Palazzo Chigi con evidente sofferenza. Quando glielo rimproveravo dicendo che insieme sarebbero diventati “i padroni d’Italia” e divisi si sarebbero reciprocamente danneggiati, come poi si sarebbe verificato, lui mi dava dell’”ingenuo”. E come tale mi dovette liquidare esprimendo da ex presidente del Consiglio e presidente della Dc nel 1989 all’Eni, che lo aveva evidentemente consultato, parere contrario alla mia nomina a direttore del Giorno. Ma, franco com’era, me lo disse personalmente telefonandomi e augurandomi lo stesso buon lavoro, cioè comunicandomi lui per primo la notizia della nomina. Come non essere oggi provato e commosso nel ricordarlo? Ciao, Ciriaco.