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All’uscita dalle consultazioni ( dopo meno di venti minuti), Nicola Zingaretti si è limitato a dire che “abbiamo accettato la proposta del Movimento 5 Stelle di indicare in quanto partito di maggioranza relativa il nome del presidente del Consiglio dei ministri. Questo nome c’è stato indicato nei giorni scorsi”. Nessun nome - quello del premier uscente Giuseppe Conte -, però, è stato pronunciato ad alta voce: Zingaretti ha voluto far ricadere la responsabilità di farlo sulla delegazione grillina, che così se ne è assunta la responsabilità politica. Tradotto: voi indicate il premier, che sarà politico a tutti gli effetti e non di garanzia, e afferente alla vostra area politica. Lasciando sullo sfondo un pur chiaro non detto: per premier politico al Movimento, il vicepremier unico spetta ai dem. In questo modo Zingaretti ha definitivamente chiuso la strada a qualsiasi ipotesi di Luigi Di Maio ancora a palazzo Chigi come vice, esplicitando che l’unico tema di accordo, per ora, è sul fatto che ai 5 Stelle tocchi la designazione del Presidente del consiglio. Il governo s’ha da fare, dunque, ma non ci sarà «alcuna staffetta e al un passaggio di testimone», ha precisato il segretario, tornando a parlare di «nuova stagione politica, civile e sociale», che sancisca «chiara discontinuità», soprattutto rispetto alle «ricette economiche, che dovranno essere orientate in ottica ridistribuiva». Il segretario dem, che proprio questo mandato ha ricevuto dalla sua direzione, ha ribadito l’assunto di cui si è progressivamente convinto anche lui, inizialmente scettico all’accordo: «Vale la pena di tentare questa esperienza, sottrarsi alla responsabilità è l’unica cosa che non possiamo permetterci di fare come democratici». La palla, ora, è nel campo penta stellato: il premier c’è, ora restano da definire esecutivo e programma. Intanto, a Zingaretti sta riuscendo una seconda missione, che sembrava improba all’inizio della complicata fase delle consultazioni: tenere unito un partito sotterraneamente diviso fino a poco prima. A ieri, l’unica perdita rilevante ( pur in odore da tempo) è quella di Carlo Calenda - cui Zingaretti ha chiesto di ripensare la sua scelta perchè «Abbiamo bisogno di te» - probabilmente seguito a ruota da Matteo Richetti, unico membro della direzione a votare contro il segretario. «Avevamo chiesto discontinuità e ora abbiamo assunto che Conte è il premier incaricato», ha detto polemicamente Richetti, che ora guida dentro il Pd la fazione contraria all’esecutivo che sta per nascere. In ogni caso, infatti, il condizionale rimane d’obbligo: se la casella della premiership è andata a posto, tutte le altre sono ancora vacanti e comporre un esecutivo equilibrato sarà la vera sfida per i dem: fuori Zingaretti e con tutta probabilità anche tutte le prime file renziane, in pole rimangono Dario Franceschini e Andrea Orlando per l’incarico di vicepremier, ma la spartizione dei ministeri è ancora avvolta nella nebbia, come il programma di governo. «Non sarà un contratto» ma un accordo di legislatura, ripetono dal Nazareno, ma è chiaro a tutti che i punti indicati dagli uni e dagli altri sono troppo generici per essere sufficientemente solidi e reggere all’urto della difficile fase politica che sta per cominciare, a partire dalla manovra di Bilancio. Se dal Nazareno trapela soprattutto ansia di formalizzare un programma, impazza anche il totonomi per i ministeri. Oltre a Franceschini e Orlando, che sicuramente troveranno collocazione, probabilmente alla Presidenza del Consiglio come vicepremier o sottosegretari ( la strada suggerita dal Colle per depotenziare la questione “vicepremier” legata a Di Maio), altro nome in pole sarebbe quello di Paolo De Micheli, zingarettiana vicesegretaria del Pd, per il Ministero dello Sviluppo Economico. Per Maurizio Martina, tra le ipotesi, c’è il ritorno al Ministero dell’Agricoltura o, nel caso in cui De Micheli facesse la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, il Mise. Anche il capogruppo Graziano Delrio potrebbe arrivare il ministero delle Politiche sociali. Ancora buio, invece, sull’ipotesi di renziani attivamente incaricati nel governo giallorosso. Renzi preferirebbe l’ipotesi delle “mani libere”, gli zingarettiani invece punterebbero a inserire almeno un nome nella rosa a garanzia della tenuta del gruppo parlamentare. La linea è segnata e, dopo gli intoppi dei giorni scorsi, è anche diventata più in discesa. «Stiamo conducendo un percorso difficile e con molti rischi. In questi giorni ho avuto non pochi dubbi. Ascoltare Salvini all’uscita delle consultazioni al Quirinale ne ha cancellati d’un colpo tantissimi. L’Italia non può crescere con l’odio, la paura, le minacce quotidiane», è stato il commento di un dirigente di peso come Andrea Orlando. La preoccupazione del Pd, però, è duplice: portare in porto il governo sì, ma soprattutto formare un esecutivo - per dirla con le parole di Goffredo Bettini - che sappia «suscitare qualcosa di positivo nell’animo delle persone». Perchè il rischio è sempre lo stesso, che si voti domani o tra un anno: che la spinta di «responsabilità» del Pd e la scelta di questa alleanza coi 5 Stelle produca l’esito di un ulteriore incasso elettorale per Salvini.