È una lotta tra innocentisti e colpevolisti, senza vie di mezzo. Eppure in mezzo ci sta il dubbio, che questa volta appare quantomeno ragionevole, alimentato da errori e mosse strane, sulle quali ora dovrà pronunciare un giudice di Venezia.

L’inchiesta sulla morte di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate scomparsa a ottobre del 2010 e ritrovata in un campo, senza vita, a febbraio 2011, è piena di punti oscuri. Tanto da far finire la pm Letizia Ruggeri sotto indagine, per la scelta, contestata dalla difesa, di spostare 54 campioni di dna - la cui esistenza è stata a lungo negata - di fatto provocandone la distruzione. Da meno 80 gradi a temperatura ambiente: impossibile salvarli.

La pm è finita sotto indagine dopo l’archiviazione disposta dal gip Alberto Scaramuzza nei confronti del presidente della Corte d’Assise e della funzionaria dell’ufficio corpi di reato del tribunale di Bergamo, iscritte a seguito di una denuncia per frode processuale e depistaggio presentata a Venezia dai legali di Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all’ergastolo per la morte di Yara. Il gip ha dunque trasmesso gli atti per approfondire la posizione di Ruggeri, per la quale è stata però chiesta l’archiviazione. E domani è il giorno in cui il gip si pronuncerà su una vicenda che può cambiare il corso della vita di Bossetti.
Nel chiedere l’archiviazione, il procuratore aggiunto Paola Mossa si è appellata alle norme, che avrebbero autorizzato, a suo dire, le scelte di Ruggeri. Cinque pagine, nelle quali la magistrata afferma che non c’era «nessuna “ansia di distruzione”» da parte del pubblico ministero, «ma solo richieste e provvedimenti conformi al dettato normativo e alle autorizzazioni ricevute». Insomma, nulla di strano. Ma come sono andate le cose? Bossetti viene condannato in via definitiva il 12 ottobre 2018. Cinque mesi dopo, Ruggeri chiede al giudice di poter spostare tutti i reperti all’ufficio corpo di reato. Una richiesta accolta e autorizzata dal giudice nel settembre del 2019. Il 21 novembre 2019 i carabinieri di Bergamo spostano «fisicamente» tutti i reperti, compresi i 54 campioni di dna, dal laboratorio San Raffaele di Milano all’ufficio corpo di reato. Ma prima, avvisano Ruggeri del rischio di distruzione. La pm li invita a procedere, i carabinieri, però, conservano per scrupolo i campioni nei freezer della compagnia. La difesa di Bossetti, il 27 novembre 2019, ottiene l’autorizzazione del giudice ad analizzare i campioni, circostanza, spiega l’avvocato Claudio Salvagni, nota a Ruggeri, perché notificata dallo stesso avvocato alla procura. Ma cinque giorni dopo, il 2 dicembre, i reperti, compreso il dna di “ignoto 1”, sono stati portati all’ufficio corpi di reato. Dove, di fatto, sono andati distrutti. Nella sua opposizione alla richiesta di archiviazione, Salvagni spiega che la pm, nel disporre il trasferimento dei 54 campioni di dna, «ha agito in modo consapevole (conoscendo le norme e ignorando anche l’allarme prospettatole dai carabinieri), in modo tale da rendere i reperti biologici inservibili per nuove indagini». E «nessun diritto aveva a distruggere i campioni, provvedimento riservato esclusivamente al giudice». L’avvocato riporta una frase della pm, sentita in procura di Venezia: «Abbiamo chiesto che non gli sia consentito di accedere a questi reperti, né ora né mai, né per la revisione né per niente altro».
Nella sua richiesta di archiviazione, Mossa scrive che «è vero che nel provvedimento di confisca la corte d’Assise fa riferimento alla non opportunità di provvedere, allo stato, alla distruzione dei reperti, e che il deposito degli stessi in luogo non dotato di congelatori ne avrebbe probabilmente alterato l'integrità; ma è altrettanto vero che quel provvedimento interviene solo il 15 febbraio 2020», mesi dopo l’arrivo delle provette all’ufficio corpi di reato. Per Mossa, d’altronde, Ruggeri non aveva nulla da temere in vista di una possibile richiesta di revisione, dal momento che «la prova scientifica su cui si fonda il giudizio di responsabilità a carico del Bossetti è risultata assolutamente solida e non vi sono elementi per ritenere che accertamenti successivi e ulteriori possano inficiarla».
Salvagni, però, non è d’accordo. «Il dato oggettivo è che i beni - che erano ancora sotto sequestro - sono stati spostati su ordine del pm, dalla temperatura di meno 80 gradi a temperatura ambiente, con il rischio concreto che di degradassero - dice al Dubbio -. Ma in quanto beni sotto sequestro avevano ancora una finalità probatoria. Spostare i reperti ha comportato la distruzione di una prova. Tutto questo, secondo me, va solo in un’unica direzione, quella della responsabilità del pm». Nella richiesta di archiviazione, viene citata una norma, in base alla quale, secondo il magistrato di Venezia, Ruggeri si sarebbe comportata coerentemente con quanto prescritto dalle leggi. L’articolo in questione è il 262 del codice di procedura penale, «ma basta leggerlo - prosegue Salvagni - per rendersi conto che il pm non ha questa facoltà, tanto è vero che il provvedimento del giudice, invece, è quello di conservazione. Il pm avrebbe dovuto aspettare il provvedimento del giudice: è una parte tanto quanto la difesa e quindi non può prendere un’iniziativa se non è disposta da un giudice».

Ma non solo: che quei reperti esistessero è stato a lungo negato. «Le sentenze dicono che non esistevano più: lo scrive la Cassazione. Ma se i giudici scrivono che non esistono e invece esistono, è evidente che qualcuno ne ha nascosto l’esistenza. Anche questo mi sembra totalmente evidente», aggiunge il legale. I dubbi sono tanti, ma per tutti rimane un fatto: il dna di Bossetti sul corpo di Yara. Come si spiega? Per Salvagni, quella che finora è stata spacciata per certezza in realtà certezza non è.

«Che quello sia sicuramente il dna di Bossetti scientificamente non è possibile. Sappiamo tutti che la cellula è composta da due elementi, il nucleare e il mitocondriale - spiega -. Siccome in scienza non ci sono elementi di serie A e di serie B, abbiamo da una parte un elemento che va nella direzione Bossetti e dall’altra uno che lo esclude. Sono due dati antitetici: o si dà una risposta scientifica a questa anomalia oppure si è in presenza di un qualcosa di aberrante». Nella serie Netflix a spiegarlo è Peter Gill, padre della genetica forense con cattedra all’università di Oslo, secondo cui «oltre al dna nucleare di Massimo Bossetti e al dna mitocondriale di Yara c’era per forza il mitocondriale di una terza persona». «Si tratta di un luminare della genetica forense che non è stato un consulente della difesa, per cui non capisco perché ci si ostini a dire che c’era il dna di Bossetti: allo stesso modo si potrebbe affermare che non ci fosse, perché un pezzo di quel dna non c’è».

Per la Cassazione, però, «il dna mitocondriale c'è, ma non si vede. Una questione cruciale è stata liquidata così. Allora la mia domanda è: come mai si vedono quello di Yara e, sotto traccia, quello di una terza persona? E perché, invece, il dna mitocondriale di Bossetti gioca a nascondino? Se il mitocondriale, che potrebbe essere preso come la prova del nove, non torna, è evidente che l’individuazione fatta con il nucleare è sbagliata». A questa eccezione si obietta che comunque il dna di Bossetti è venuto fuori. E non si tratta del dna di un uomo dall’altro capo del Paese, ma di qualcuno della zona, esistente. «Sembra una argomentazione molto forte - continua Salvagni -, ma anche questo non tiene conto di una cosa invece scientifica: nella bergamasca esiste indubbiamente una sorta di microcosmo in cui tutti più o meno alla lontana sono imparentati, per cui l’esistenza di dna molto simili non è così eccezionale. Probabilmente la verità è che quel dna è di una persona comunque vicina al dna di Bossetti, ma non è lui, perché basta cambiare un allele e cambia persona. La certezza con cui si afferma che sul corpo di Yara c’era il nucleare di Bossetti è ascientifica».

La difesa, ora, punta ad analizzare i reperti che sono ancora esistenti, ovvero gli indumenti di Yara, quelli dai quali è stato estratto il dna di ignoto 1, per verificare se ci sono altre tracce analizzabili e che magari restituiscano un risultato simile, ma non identico. «Anche perché le macchine che dovevano leggere questo dna - aggiunge Salvagni - non sono state tarate così bene da evitare un errore: abbiamo evidenziato 261 anomalie».
Sull’inchiesta ha influito enormemente la macchina mediatica, corredata anche da un video costruito ad arte del furgone di Bossetti attorno alla palestra di Yara e la “finta” fuga durante l’arresto. «Questo processo si caratterizza per una spettacolarizzazione massima - evidenzia Salvagni -. Si è voluto, a mio giudizio, creare il mostro e Massimo Bossetti è stato condannato a furor di popolo. Avrei voluto vedere una sentenza coraggiosa, ma credo che giudici avrebbero passato qualche brutto momento. Non si poteva non condannare Bossetti: era una sentenza già scritta. Partendo dal tweet del ministro Alfano che aveva detto “abbiamo preso l’assassino di Yara”».