V13: così è chiamato in codice il processo degli attentati terroristici avvenuti venerdì 13 novembre 2015 a Parigi.

Centotrenta vittime, falciate a colpi di kalashnikov nelle terrazze dei caffè del X e XI arrondissement e nella sala concerto del Bataclan, più il fallito attentato allo Stade de France. E così si chiama la cronaca giudiziaria dello scrittore Emmanuel Carrère che per nove mesi ha seguito tutte le udienze, tutte le testimonianze, tutte le arringhe fino al verdetto finale della Corte di assise.

La prima parte di V13 è dedicata ai racconti delle parti civili, pagine strazianti, fitte di dettagli atroci, di disperazione e di eroismo. Parlano i sopravvissuti e i familiari delle vittime, intrecciano i ricordi di quella notte, provano a ricostruire la trama, serrata e dolente dei momenti fatali che hanno portato alla morte dei propri cari. C’è Maia che al caffé Carillon ha visto morire il marito Amine, due giovani architetti innamorati e pieni di progetti per il futuro. Lei se l’è cavata con delle ferite alle gambe, protetta dal corpo di un uomo crivellato di colpi: «Ho sentito il suo respiro meccanico, i suoi ansimi, i suoi ultimi istanti di vita».

Ci sono Aristide e Alice, fratello e sorella, due sportivi, giocatore di rugby lui, ginnasta lei; sono usciti vivi dalla sparatoria al bar Petit Cambodge, ma sono rimasti entrambi handicappati e hanno dovuto rinunciare all’attività sportiva. Aristide è entrato in depressione e lo hanno ricoverato in un ospedale psichiatrico per diversi mesi. Poi c’è il teatro principale dei massacri, il Bataclan. Sono le 21.30 quando i terroristi irrompono nella sala interrompendo il concerto del gruppo Usa Eagles of death metal; esplodono decine di raffiche di kalashnikov, in particolare verso la “fossa”. Nei primi minuti massacrano decine di persone, nel teatro ce ne sono più di mille. «Avevamo paura di venire falciati dai mitra ma soprattutto di morire calpestati dalla folla».

Commoventi gli episodi di solidarietà tra quei ragazzi; come Bruno che rinuncia a fuggire per restare accanto a Edith una sconosciuta che non poteva muoversi. O Clarisse che riesce a scappare in galleria e sfonda un controsoffitto permettendo a decine di persone di salvarsi.

Quasi tutti affermano di non cercare vendetta, di non provare rabbia perché non vogliono «diventare come i terroristi», lo slogan ripetuto fino allo sfinimento è: «Non avrete il nostro odio». Poi, improvvisamente, uno squarcio, una macchia che va a sporcare il quadretto idilliaco di questa postura virtuosa, riparativa, quasi catartica. È la testimonianza di Patrick

Jardin un uomo corpulento dai modi sgraziati che ha perso la figlia nella “fossa” del Bataclan: Jardin non vuole perdonare, non vuole capire, vuole solo vendetta, afferma che gli imputati dovrebbero venire fucilati, e si dice disgustato dal fatto che molti familiari delle vittime abbiano rinunciato all’odio per i carnefici. «Mi accusano di spargere odio ed è vero signor presidente, sono pieno di odio», ammette Jardin.

Carrère naturalmente si sente a disagio, per il «furore arcaico» che pretende la legge del taglione e ignora lo Stato di diritto, ma a suo modo gli è grato, perché quelle parole ruvide in qualche modo introducono un principio di realtà, spezzano la narrazione unanime, quasi ipnotica, con cui le vittime tentano di elaborare il lutto in modo non del tutto sincero: «Credo sia una buona cosa che, almeno una volta su 250, possiamo ascoltare una voce morosa e priva di perdono».

La seconda parte di V13 è invece consacrata agli accusati e Carrè re non nasconde la sua delusione; di fronte a crimini così grandi si aspettava, se non altrettanta malefica grandezza almeno un minimo di consapevolezza politica. Rimarrà colpito dalle personalità insipide, vuote, di questi ragazzi accusati di essere coinvolti a diverso titolo nelle stragi, diventati jihadisti quasi per caso. Sono venti alla sbarra e la “star” è Salah Abdelslam, unico superstite del commando. Doveva farsi esplodere, ma non l’ha fatto, forse perché la cintura era difettosa, forse perché ha avuto, paura, forse perché non voleva uccidere degli innocenti. Per sei anni è stato in isolamento, sorvegliato h24 da una telecamera. Ci sono alcuni amici di infanzia di Salah, dei combattenti dell’Isis, dei piccoli delinquenti, un falsario. Diciannove di loro saranno condannati, Salah avrà l’ergastolo ostativo.

L’ultima parte è dedicata alla Corte, i presidenti della giuria, i procuratori, gli avvocati difesnori. Carrère è colpito dall’«altissimo livello» di tutti i protagonisti; dall’accusa che raramente deraglia nel giustizialismo ma resta sobria e puntuale, dai giudici che accompagnano con imparzialità e senso del diritto tutti i passaggi del processo (anche se contesta l’ergastolo a Salah) dalla tenacia della giovane Olivia Ronen, avvocata di Salah: «È stata veemente e ispirata, bisogna renderle omaggio».