Il 7 agosto 1990 la giovane Simonetta Cesaroni veniva uccisa in un appartamento al terzo piano del complesso di via Carlo Poma n. 2 a Roma, nella sede dell’Aiag (Associazione italiani alberghi della gioventù). Il caso rimane ancora irrisolto. Oltre trent’anni sono trascorsi da quel giorno: diverse piste, nessun colpevole, un mistero italiano forse secondo solo a quello del mostro di Firenze.

Ma qualche giorno fa il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Giulia Arcieri, ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata a novembre 2023 da Gianfederica Dito, ora procuratore capo ad Arezzo. Ad opporsi alla chiusura del caso la sorella di Simonetta, Paola, assistita dall’avvocato Federica Mondani. «Si ritiene congruo, stante la complessità della vicenda, indicare allo stato, in termine di sei mesi per la prosecuzione delle indagini», scrive la gip al termine dell’ordinanza.

Cinquantacinque pagine in cui la magistrata chiede di approfondire delle piste, le elenca, fa i nomi di persone su cui l’attenzione degli investigatori non si è concentrata abbastanza, alcune addirittura decedute, critica le indagini, ipotizza depistaggi dei servizi segreti. In quelle carte c’è l’assassino? C’è davvero una strada da seguire? Non spetta al gip dirlo, ma alla Procura che ora dovrà risentire ben 29 persone e fare ulteriori accertamenti. Ma davvero questo piccolo lasso di tempo potrà servire a risolvere un delitto che è rimasto senza colpevole da 34 anni?

Da allora furono indagati il portiere dello stabile Pietrino Vanacore, suo figlio Mario, la moglie Giuseppa, Salvatore Sibilia, ispettore dell’Aiag e sua sorella Maria Luisa, l’ex direttore dell’Aiag Corrado Carboni (posizioni archiviate nel 1991), nonché Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle, che abitava nel palazzo del quartiere Prati, prosciolto da un gup nel 1993; l’ex fidanzato della giovane, Raniero Busco, fu condannato in primo grado nel 2011 e assolto in via definitiva nel 2014. Adesso si vorrebbe riaprire la partita, dopo l’esposto della famiglia della vittima ed altri pervenuti in Procura, anche in forma anonima.

La premessa è che secondo la gip «appaiono davvero tanti gli “errori” investigativi», definiti «macroscopici ed imperdonabili». Ne elenca 15: prima del dissequestro, gli inquirenti hanno consentito a Francesco Caracciolo di Sarno, all’epoca Presidente dell’Aiag, e alla responsabile amministrativa Anita Baldi, di entrare nell’appartamento e portare via molteplici documenti; «appare sorprendente» che una «poliziotta si sarebbe dilettata a disegnare una margherita e a scrivere la misteriosa dicitura CE DEAD: (si è interpretato che CE starebbe per Cesaroni, mentre DEAD in inglese significa morta/morto), poi gettando il relativo biglietto nel cestino della stanza dove giaceva il cadavere», così inquinando la scena del crimine; «altrettanto sorprendente» appare che un ispettore di polizia, al momento del primo intervento, rinvenendo nella borsa della vittima la prescrizione della pillola anticoncezionale abbia usato quel foglio per appuntare i numeri di telefono di un collega della vittima da interrogare; lo stesso ispettore fece una relazione in cui indicò in maniera errata i dati di un’automobile di un giovane visto intorno all’ora dell’omicidio nello stabile, appellato come “Mister X”; gli inquirenti non acquisirono i “fogli firma” dei dipendenti né i tabulati telefonici delle utenze dell’ufficio; non venne repertato un pelo pubico trovato sulla mano di Simonetta, durante il sopralluogo alcuni oggetti vennero spostati, altri sparirono, nessuno si accorse che l’agendina rossa con la scritta Lavazza non appartenesse alla vittima ma a qualcuno della famiglia Vanacore, non venne repertato il sangue sulla scena del crimine, né sequestrato lo straccio da pavimento bagnato presente nello sgabuzzino, usato, proprio secondo gli inquirenti, per la pulitura del sangue della vittima.

Secondo la gip questi errori non possono essere «frutto solo di scarsa diligenza o di mancata conoscenza (come è stato sostenuto), all’epoca, di adeguata cultura investigativa, anche in relazione all’alto profilo professionale di almeno taluni soggetti che si occuparono delle indagini». E allora tutto questo «rende plausibile il sospetto che l’indagine sia stata inquinata da “poteri forti”» per proteggere interessi o soggetti dei servizi segreti. Ma a quale scopo non è dato sapersi.

Comunque «non va sottovalutato il collegamento a personaggi di potere - e contesti di potere quali i servizi segreti - di molti protagonisti della vicenda collegati all’Aiag». Il giornalista e criminologo Carmelo Lavorino nel testo “Via Poma Inganno Strutturale tre” «ha indicato al riguardo come: “il direttore nazionale dell’Aiga nel 1989 era Di Cesare Vito, cognato del prefetto Mapica Riccardo, allora direttore del Sisde”; «la polizia chiese la collaborazione nelle indagini dello psichiatra del Sisde, Bruno Francesco, che nella fase iniziale delle indagini sposò la tesi della colpevolezza del portiere Vanacore»; «Voeller Roland, il “supertestimone» che portò ad indagare Valle Federico aveva collegamenti con i servizi segreti»; «tra i primi inquirenti ad intervenire sul luogo del delitto ci fu Costa Sergio, funzionario del Sisde (dal 1982 al 1996; dal 30/11/1990 distaccato presso la questura di Roma) e genero del Capo della polizia dell’epoca, Parisi Vincenzo». Tuttavia, ricorda la gip, «lo stesso Costa rilasciò interviste al riguardo riferendo che sarebbe stata del tutto normale la sua presenza sul posto, accompagnando l’ispettore Pitzalis Gianni (suo collega al Cot, centro operativo territoriale), in quanto era di turno quando arrivò la richiesta di intervento per il ritrovamento del cadavere di Simonetta».

Poi il gip cita un’altra circostanza anomala, ma emersa già negli anni, che riguarda Pietrino Vanacore, come raccontata in un articolo del giornalista Emilio Radice, che ha riferito di essere stato avvicinato da un magistrato dell’epoca, Giuseppe Pizzuti, che gli avrebbe confidato che la custodia cautelare di Vanacore era stata «protratta il più a lungo possibile su espressa richiesta del capo dell’ufficio istruzione dell’epoca, Cudillo Ernesto», il quale avrebbe a sua volta subìto pressioni dall’alto.

E poi si legge ancora: «Nei lunghi 30 anni la polizia non ha mai messo in dubbio la figura del Caracciolo di Sarno, con i conseguenti effetti tranquillizzanti su chi poteva nutrire dubbi». Ma chi è Francesco Caracciolo di Sarno? Avvocato, presidente dell’Aiag, ormai deceduto. Tuttavia su di lui si posa l’ombra di parecchi sospetti: diverse testimonianze, poi alcune ritrattate, sostenevano che l’uomo il giorno del delitto rientrò a casa «trafelato», «abbastanza scosso«, con «un pacco mal avvolto», come riportato in un appunto del 1992 della Questura di Roma fornito in fase di escussione dal giornalista Igor Patruno, tra i massimi esperti del caso. Nell’appunto si riporta che «sarebbe noto tra gli amici per la dubbia moralità e le reiterate molestie arrecate a giovani ragazze».

Lui all’epoca dichiarò che all’ora del delitto stava accompagnando la figlia e due amiche all’aeroporto di Fiumicino. I carabinieri che hanno indagato recentemente hanno evidenziato però che «i quattro dichiaranti non resero dichiarazioni altrettanto concordi». «Tali discrasie» porterebbero all’ipotesi «di un alibi falso». In più «quale soggetto quantomeno sicuro di sé e volitivo, se non prepotente e arrogante, e che si avvaleva di amicizie importanti, quindi potente» rende il suo profilo «compatibile con quello di chi abbia potuto manipolare, influenzare, esercitare pressioni sulla ricostruzione della verità», come descritto da più fonti.

Dato questo complesso puzzle, la gip appunto ha invitato la procura a risentire 29 persone, tra cui Sergio Costa (che non è il vice presidente della Camera) e anche Mario Vanacore; per alcune ha specificato che «eventuali condotte di falsa testimonianza e/o di favoreggiamento commesse in passato sono prescritte e non attualmente punibili«. Dunque «un invito a dire la verità, richiamando il loro senso civico e la necessità di rendere giustizia alla vittima e ai familiari ancora in vita». Tra queste la figlia di Caracciolo di Sarno, la vedova Vanacore, Anita Baldi.

Oltre a questa attività, non essendo più possibile effettuare analisi sul sangue, bisognerà consultare un esperto per riesaminare tutte le perizie e un altro per ulteriori accertamenti di tipo genetico sugli indumenti di Simonetta. Per l’avvocato Claudio Strata, che assiste Mario Vanacore, «sicuramente c’è molta amarezza e molto stupore nella famiglia Vanacore nel leggere che si deve ancora indagare nell’ambito della stessa famiglia Vanacore dopo tutti questi anni, dopo tutto quello che è già stato investigato su di loro». Precisa poi che «non esiste la lettera di cui si legge nell’ordinanza che sarebbe stata scritta da Pietrino Vanacore in cui direbbe di essere stato costretto a mentire perché ricattato da funzionari della polizia di Stato. Se la giornalista Raffaella Fanelli l’avessa avuta l’avrebbe consegnata alle autorità e ne avrebbe scritto».

Per l’onorevole del Partito Democratico, Roberto Morassut, «l’ordinanza del gip conferma la fondatezza di alcuni elementi già presenti nelle indagini (e che erano stati ignorati) e di nuovi elementi nel frattempo emersi per individuare i responsabili del delitto e dei retroscena che allargano il quadro a vicende più complesse.

Del resto avevo avanzato la proposta di istituire una commissione parlamentare di indagine sul caso nella convinzione che non siano mai stati davanti solo ad un delitto, ma ad un delitto che si incastona in uno scenario che ha caratteri storico-politici più generali. La commissione è ferma in Commissione giustizia. Ed è stata fermata proprio nella errata valutazione che non si tratti di un delitto di Stato. Valutazione superficiale». Insomma la matassa da sbrogliare è davvero complessa: la speranza è che si giunga ad individuare un colpevole ma l’impresa appare alquanto ardua, dopo tanti anni. Una bella sfida per la Procura di Roma e per i suoi investigatori che dopo anni di buchi nell’acqua potrebbero riscattarsi.