Sono state due le giornate di udienza camerale a porte chiuse fiume disposte dal Gip nisseno Santi Bologna, per l'interrogatorio dell'ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola, sicario del clan catanese Santapaola – Ercolano, che ha rivelato la sua partecipazione, assieme ai mafiosi catanesi, nell'esecuzione dell'attentato di Via D'Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Come è noto, Avola non viene creduto dalla procura di Caltanissetta fin dall'uscita del libro rivelazione scritto a quattro mani da Michele Santoro e Guido Rutolo. A causa di questo libro, i due giornalisti e l'avvocato Ugo Colonna, storico legale di Avola, sono stati indagati, pedinati e intercettati con il trojan. Addirittura sospettati di depistaggio, tanto che la procura – nella richiesta di archiviazione sulle accuse dell'ex sicario catanese – scrive che è assai probabile che le dichiarazioni di Avola «possano essere state eterodirette da parte di soggetti non identificati». Ma è stato un buco nell'acqua, tanto che – nonostante le intercettazioni invasive – non è stato trovato nulla di tutto questo.

Come prevedibile, il Fatto Quotidiano, casualmente nei giorni dell'interrogatorio, ha tirato fuori la storia che l'avvocato Colonna avrebbe avuto un comportamento anomalo sui soldi che versava ad Avola e del fatto che era diventato garante del mutuo acceso dall'ex moglie dell’ex pentito per acquistare un appartamento. Come scrive il giornale diretto da Marco Travaglio, per la procura di Caltanissetta si tratta di un «comportamento che certamente esorbita da un mero rapporto professionale».

Ovvio che ai lettori arrivi la percezione che ci sia qualcosa di poco chiaro, losco. Niente di tutto questo. La verità è molto semplice, lineare. L'avvocato Colonna ha assistito Avola fin da quando si è pentito per la prima volta nel 1994. Ecco i fatti, tra l'altro documentati sia innanzi al Gip Bologna sia tramite nota dall'avvocato Colonna stesso, in occasione della sua audizione alla commissione Antimafia presieduta da Chiara Colosimo.

Non resta che spiegarlo, perché sono i fatti che contano e non la strategia del sospetto che può ricordare molto da vicino il fenomeno siciliano del “mascariare”, gergo che indica la delegittimazione morale. Spieghiamo i fatti. Nel 1994, la vita dell'avvocato Colonna si intreccia con quella di Avola e della sua famiglia, a causa di un grave fatto di cronaca. Cosa Nostra catanese tramava l'eliminazione del dottor Vincenzo Speranza, dirigente della Polizia di Stato, reo di occuparsi dei beni di Claudio Severino Samperi, uomo d'onore della famiglia Santapaola diventato collaboratore di giustizia nel gennaio 1993. La legge sui collaboratori di giustizia (art. 12 l. 82/91) spinge l'avvocato Colonna, su indicazione del Procuratore della Repubblica di Catania, ad assumere un ruolo delicato: quello di procuratore speciale per gestire i beni patrimoniali di Avola e dei suoi familiari a partire dalla fine del 1994. Il suo compito: amministrare le loro lecite disponibilità economiche, tutelando i beni a loro intestati e situati a Catania e provincia, soggetti a un programma speciale di protezione.

Dalla vendita dei beni mobili e immobili, iniziata sin dal 1994, al supporto al trasferimento della famiglia da Catania, resosi necessario per la collaborazione del loro congiunto, l'avvocato Colonna ha agito con dedizione e discrezione. Nel luglio 1995, in qualità di procuratore munito di specifica procura notarile da parte di Carmelo Avola, padre di Maurizio, ha presenziato all'atto di vendita di un'abitazione sita in Catania, via Medea, 3. Un impegno costante, protrattosi negli anni. All'uscita dei familiari dal programma di protezione, ricevute le opportune somme di capitalizzazione, il padre di Avola affida all'avvocato Colonna un incarico ben preciso: investire il denaro in un'attività commerciale da avviare al termine della detenzione del figlio. Un progetto che, per legittime ragioni, ha visto l'avvocato Colonna gestire le somme derivanti dalle vendite dei beni patrimoniali della famiglia Avola.

Davanti al Gip di Caltanissetta, l'avvocato Colonna ha chiarito le motivazioni che lo hanno spinto a ricercare un'occupazione lecita per Avola: sostenere la richiesta di una misura alternativa al carcere, presentata nel 2018 al Tribunale di Sorveglianza di Milano. Ha inoltre fornito spiegazioni in merito al mancato avvio dell'attività commerciale originariamente pianificata (l'acquisto di strutture per un laboratorio di pasticceria) nel 2020, come da desiderio del padre di Avola, al termine della sua scarcerazione. L'impegno dell'avvocato Colonna non si è esaurito nella gestione dei beni. Ha infatti garantito ad Avola un minimo di riservatezza e tutela del luogo di domicilio dopo la sua scarcerazione avvenuta il 10 gennaio 2020. Inoltre, è stato nominato Tutore legale dal Giudice Tutelare, a seguito del passaggio in giudicato delle sentenze che ne disponevano l'interdizione durante il periodo di detenzione. Un'esperienza complessa e delicata, gestita dall'avvocato Colonna con professionalità e rigore, a tutela di una famiglia coinvolta – per colpa di Avola - in vicende di criminalità organizzata. Tra l'altro a fine maggio l’avvocato ha subito un furto particolare nel suo studio, apparentemente su commissione, del suo solo vecchio Pc portatile, sul quale sta indagando la polizia.

C'è qualcosa di singolare, fin dal primo momento, in questa potenza di fuoco attivata per le dichiarazioni di Avola. Eppure, nonostante l’evidente ostilità, ci sono dei riscontri (e tanti altri che ancora si devono ricercare) che non possono rimanere inosservati. D'altronde, non è un caso che il Gip ha respinto la richiesta di archiviazione invitando la procura a fare ulteriori indagini. Inoltre c’è da precisare che l'avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, non ha posto alcun pregiudizio e ha scavato a fondo nella ricerca di eventuali riscontri. Non si comprende questo clima ostile, mai verificato con ben altri presunti pentiti che trattano e ritrattano la memoria, raccontano storie surreali. Nonostante ciò sono stati pompati e sponsorizzati dai mass media e procuratori. Inutile citare, solo a titolo esemplificativo, Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito. Oppure altri collaboratori che di punto in bianco, testimoniano de relato le donne bionde “amazzone” con Aiello, purtroppo conosciuto come “faccia da mostro”. Sembrerebbe che siano più credibili i pentiti che parlano di “entità” e de relato, invece di chi racconta i fatti svolti in prima persona.

Sullo sfondo, ma nemmeno tanto, c'è la questione delle intercettazioni ambientali del 1993 captate dalla Dia per conto della procura di Palermo nel covo di via Ughetti 17 a Palermo, utilizzato dai mafiosi Nino Gioè e Gioacchino La Barbera, che – come ha scritto Guido Rutolo in un articolo sul sito di "Servizio Pubblico” - se rilette oggi confermerebbero il coinvolgimento dei catanesi nelle stragi di Palermo e del Continente.

In effetti, leggendo parte delle intercettazioni, che sono state acquisite a suo tempo per il processo fallimentare trattativa Stato-mafia, c'è un passaggio che a parere di chi scrive sembra molto sottovalutato. È del 16 marzo 1993, Gioè dice che quel giorno doveva incontrarsi con Nitto Santapaola (in quell’occasione non fu catturato). Riferendosi ai catanesi come uomini che fanno determinate azioni, dice: «Per me i migliori di Catania sono quei quattro, cinque picciotti a livello di terroristi, di fedayn, loro sanno di queste cose, perché io ci sono stato insieme in cose particolari che interessano pure a noi». Ancora prima dice, sempre riferendosi ai Catanesi: «No, ne hanno a Milano, hanno fatto una “scanna”, caro mio, c'è una batteria caro mio, ma potente». C'è da chiedersi cosa ha fatto di particolare assieme a loro nel Nord. Mancano evidentemente dei pezzi fondamentali per la verità. Forse potrebbe interessarsi alla cosa anche la procura di Firenze. Dal tenore delle intercettazioni, anche se non sono tutte, emerge non solo il ruolo particolare e fondamentale dei catanesi, ma anche di qualcosa che stavano preparando. E siamo a qualche mese prima degli attentati continentali.